Informazione e guerra

Informazione e guerra

di Barbara Gallo (Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo)

L’importanza dei mezzi di comunicazione di massa nelle situazioni di conflitto è riconducibile al più generale problema dell’influenza che i media possono avere sul pubblico. Gli studi riguardo agli effetti dei media sull’opinione pubblica sono passati da una iniziale impostazione deterministica basata su uno schema lineare causa-effetto, che considerava il pubblico come recettore passivo dei messaggi mediatici, ad approcci che sottolineano le capacità dell’audience di selezionare e mediare il messaggio dei media, fino a giungere ad una interpretazione personale del messaggio trasmesso.

Pur in presenza di un’audience attiva, tuttavia, il problema è reale, in quanto sarebbe difficile negare che i media abbiano un’influenza sulla vita sociale. Due funzioni dei mezzi di comunicazione appaiono essenziali per comprendere in che modo essi creano le nostre conoscenze e percezioni degli eventi politici e, in particolare, dei conflitti internazionali:

1) I media come fonte di conoscenza: ciò che accade nel mondo è raramente conosciuto dagli individui attraverso l’esperienza diretta, ma piuttosto in maniera mediata dalla comunicazione. Attraverso un processo noto come la teoria dell’agenda-setting, si ipotizza che i media possono influenzare che cosa conosciamo e che cosa consideriamo prioritario tra gli infiniti eventi e problemi che caratterizzano la realtà. Con riferimento alle situazioni di conflitto, quindi, i media contribuiscono a determinare sia quali aree di crisi risultano “salienti” cioè considerate importanti dal pubblico e dai rispettivi governi, sia in quali situazioni di crisi diventa necessario intervenire da parte della comunità internazionale.

2) I media come costruttori della realtà sociale: in una società come la nostra, i media hanno un ruolo decisivo nei processi di costruzione della realtà sociale soprattutto nel caso di eventi che avvengono lontano da noi. In questo modo essi determinano non solo ciò che conosciamo del mondo, ma anche come conosciamo il mondo. Quando i media parlano degli eventi, infatti, li collocano all’interno di cornici interpretative (processo di framing) che aiutano ad attribuire un senso e, nello stesso tempo, permettono di veicolare determinate interpretazioni degli eventi stessi. Nel caso delle crisi internazionali, l’uso di determinate cornici interpretative (umanitarismo, prevenzione del terrorismo, la demonizzazione del nemico ecc.) serve a giustificare l’uso della forza militare per giungere alla loro soluzione. Nei paesi democratici, dove le scelte politiche – e tra queste le guerre – devono ottenere il consenso dei cittadini, il ruolo dei media è pertanto essenziale per fornire legittimazione agli interventi militari all’estero. E’ cosa nota che le parti in conflitto spesso usino i mezzi di comunicazione per trasmettere il proprio punto di vista e la propria versione dei fatti. Nelle situazioni di conflitto, inoltre, il processo di costruzione delle notizie è particolarmente difficile perché esiste il problema di verificare le fonti. I giornalisti, infatti, spesso non sono in grado di accedere al teatro di guerra. In questo caso, essi costruiscono le notizie sulla base di informazioni di seconda mano, provenienti cioè da testimonianze di altri, dalle agenzie, o dalle fonti ufficiali che, nella maggior parte dei casi, sono rappresentate dagli uffici stampa dei governi coinvolti nel conflitto stesso. Nelle guerre degli ultimi decenni il problema dell’attendibilità delle fonti delle notizie è stato particolarmente evidente, basti pensare al caso del Kosovo, quando i giornalisti furono espulsi dal territorio del conflitto oppure riuscirono ad ottenere l’accesso all’area delle operazioni militari soltanto in team organizzati e controllati dalle autorità militari in veste di giornalisti embedded . Di conseguenza, le notizie sulle guerre sono spesso basate su informazioni parziali – perché provenienti da una delle parti in causa – e non verificabili – perché i giornalisti spesso non possono “andare a vedere e quindi verificare”. In conclusione, per formarci un’opinione consapevole e critica della realtà diventa essenziale, soprattutto in situazioni di conflitto, attingere a più fonti di informazione e confrontare le versioni dei fatti che esse ci propongono.

LE NUOVE GUERRE

La conflittualità contemporanea è caratterizzata da alcuni elementi distintivi rispetto al passato, le modalità della guerra si sono modificate nel corso del tempo in base all’evoluzione dell’organizzazione sociale, delle conoscenze tecnologiche, nonché degli equilibri geopolitici. La prima metà del Novecento è stata caratterizzata dallo scontro tra le grandi potenze, in particolare europee, per il dominio del mondo. Le due guerre mondiali, le rivoluzioni e dittature che sconvolsero l’Europa in quegli anni cambiarono gli equilibri geopolitici del mondo. Il periodo di dominio europeo lasciava spazio all’epoca del bipolarismo statunitense e sovietico della guerra fredda e le bombe atomiche americane lanciate su Hiroshima e Nagasaki ne simboleggiano l’inizio. La seconda metà del secolo scorso si caratterizza, invece, per lo spostamento del teatro delle guerre e delle lotte per il potere nei paesi del sud del mondo. Dopo il 1945 i paesi in via di sviluppo hanno conosciuto un numero eccezionale di conflitti, straordinariamente variegati sotto il profilo tipologico: dalle violente repressioni di eserciti coloniali, alle azioni armate di movimenti di liberazione nazionale, alle guerre di decolonizzazione, guerre di guerriglia, guerre interstatuali (tra stati post-coloniali e indipendenti), guerre civili, genocidi, interventi armati di stati sviluppati, guerre di secessione. Questi conflitti sono spiegabili all’interno della logica della Guerra Fredda e sono l’espressione di modalità di scontro tipiche di questo periodo storico. Le due superpotenze invece di scontrarsi direttamente intervenivano4 in modo più o meno diretto nella conflittualità che si veniva a creare nelle aree periferiche del mondo, allo scopo di allargare le rispettive aree di influenza.

Da questo momento in poi le guerre civili divennero la forma di conflittualità più diffusa a livello mondiale. Tali forme di conflitto, che si svilupparono nel mondo, variarono molto da regione a regione ed in esse si mescolarono rivalità etniche, ambizioni territoriali, legittime aspirazioni di riunificazione di popoli che interessi esterni avevano diviso. La fine della guerra fredda provocò ulteriori instabilità a livello mondiale a causa della precarietà del nuovo sistema geopolitico e così il mondo ha visto l’emergere di infinite guerre nei paesi in via di sviluppo dove appare sempre più difficile distinguere tra le complesse motivazioni e le trame internazionali di conflitti spesso presentati al grande pubblico solo come guerre interne, tribali ed etniche. Nella letteratura scientifica che si occupa del tema della violenza e dei conflitti per descrivere le conflittualità emerse, dagli anni Ottanta e in particolare dalla dissoluzione dell’URSS e dalla fine della contrapposizione est-ovest, il termine “nuove guerre” per sottolineare una certa discontinuità nella trasformazione delle forme di conflittualità contemporanee e dal fatto che sono caratterizzati da un’estrema complessità. L’eterogeneità di attori e interessi in gioco rende difficile la comprensione delle cause che determinano lo scatenare della violenza che oggi appare molecolare e diffusa su più fronti, in grado di scoppiare ovunque. Anche la figura del combattente e quella del non combattente si sfuma rendendone sempre più difficile la distinzione. Questi conflitti possono terminare con una pace armata carica di tensione ed anche una volta firmati i trattati di pace la violenza spesso riprende il suo corso. In diversi paesi rimangono contingenti internazionali e in altri si stabiliscono delle basi militari straniere. Il risultato è che molti paesi vivono in una zona grigia tra pace e guerra con il rischio che il conflitto si trasformi ina una condizione strutturale.

I MASS MEDIA E I CONFLITTI DIMENTICATI

I conflitti del XXI secolo sono, nella stragrande maggioranza, guerre dimenticate, di cui il grande circuito informativo offre assai scarne notizie. Le guerre più note sono quelle in cui ufficialmente e clamorosamente sono stati coinvolti, per un motivo o per un altro, le grandi potenze industrializzate. Su di esse sono disponibili una certa quantità d’informazioni che rendono il grande pubblico sufficientemente al corrente di quello che sta avvenendo, anche se spesso sono assenti altri “dettagli” fondamentali per capire la genesi e gli sviluppi del conflitto medesimo. Le altre decine di guerre in corso nelle varie parti del mondo sono pressoché ignorate, come lo sono le relative vittime.

Le guerre in corso conservano molte caratteristiche di quelle della seconda parte del XX secolo, essendo per lo più localizzate nelle aree marginali rispetto ai territori delle potenze industrializzate, anche se non è più attiva la contrapposizione geopolitica tipica dell’epoca bipolare. La conflittualità purtroppo rimane accesa e diffusa in molti territori in tutti i continenti.

I mass media svolgono un ruolo cruciale nel raccontare le guerre e , nel corso del tempo sono andati acquisendo da un lato un’importanza crescente nello stimolare un determinato atteggiamento dell’opinione pubblica, dall’altro hanno iniziato ad esercita una funzione sempre più “politica”. In guerra la prima a morire è la verità, recita un antico detto. In un sistema altamente complesso quale è quello attuale, l’informazione gioca un ruolo non secondario. Quando i mass media americani, di fronte alla resistenza vietnamita e alla necessità di un maggiore impegno militare nell’area indocinese, mostrarono il vero volto della guerra, il governo degli Stati Uniti, nel cui ambito si era addirittura ipotizzato l’uso dell’arma nucleare, dovette ritirarsi e accettare la sconfitta. Ancor più lacunosa è l’informazione su quelle guerre che possiamo definire conflitti dimenticati, come quella in Siria, Iraq, Yemen ed Afghanistan, ovvero luoghi lontani dalle aree di attenzione tradizionale dei mass media e dove non esistono neppure i corrispondenti dei grandi network. Queste sono crisi e guerre dove spesso potenti interessi internazionali si sposano con feroci lotte locali per il potere (i conflitti nel continente africano ne sono un triste esempio). Ecco dunque i veri conflitti dimenticati, con le vittime, a volte centinaia di migliaia se non milioni, dimenticate ed ignorate. Se oggi si facesse un sondaggio d’opinione, la maggior parte delle persone sarebbe in grado di elencare al massimo quattro o cinque conflitti in corso, senza sapere che sono dieci volte tanto. La domanda da porsi e quindi se i mass media, in realtà, seguano l’interesse momentaneo del pubblico oppure siano in grado di indirizzarlo. Questo interrogativo solleva evidentemente un dibattito a cui non è facile, né idoneo in questa sede dare una risposta esaustiva, ma è certo che in determinati momenti qualche notizia arriva a trapelare, magari dall’Algeria o dall’Africa centrale, ma poi viene presto dimenticata. Dopo il momento del picco d’interesse, più o meno breve (legato a qualche episodio particolare, magari a qualche occidentale che ne rimane vittima), segue una fase di minore attenzione e poi di oblio e le vittime di queste guerre appaiono come figli di un dio minore.

E’ assolutamente facile (e terribile) fare un confronto sulle diverse reazioni e sulla differente sensibilità dell’opinione pubblica e della maggioranza dei mass media rispetto alle “poche” migliaia di vittime delle Twin Towers di New York o ai milioni di morti in Sud Sudan o nelle guerre dei Grandi Laghi africani, in Siria nello Yemen ed in Afghanistan. Come spesso si dice, un silenzio assordante cala su queste carneficine e non se ne ha notizia, a meno di cercarne in un circuito alternativo d’informazioni, quelle che provengono per lo più da giornalisti free-lance, dal mondo missionario9 e dalle ONG, che forniscono notizie indipendenti su quello che realmente avviene in quelle areee del mondo.

Pertanto, al grande pubblico il resto del mondo appare lontano e sconosciuto, in un limbo indefinito senza storia, senza drammi e senza crisi, mentre in realtà guerre, guerriglie, colpi di stato, massacri, tensioni e scontri coinvolgono decine e decine di Paesi.

Secondo i dati dell’Armed Conflict Location& Event Data Project nel 2020 i conflitti in corso sono stati 69 considerando come “major armed conflict”, le guerre in Afghanistan, Yemen e Siria (con più di 10.000 vittime).

In questo drammatico quadro d’insieme, si sono rilevate pertanto alcune caratteristiche:

a) emerge evidente il crescente coinvolgimento della popolazione civile, divenuta ormai nei conflitti contemporanei l’obiettivo reale dei combattenti

b) all’interno di questo quadro, doppiamente colpite risultano essere le donne, non di rado vittime di stupri sistematici ad opera delle forze in campo, regolari e non, che utilizzano l’arma della violenza sessuale per umiliarle anche socialmente e terrorizzarle ancor più con la minaccia della diffusione dell’AIDS;

c) è rilevabile la permanenza di forti e crescenti interessi stranieri, non solo quelli delle tradizionali potenze ex coloniali, ma anche di nuovi soggetti quali la Russia e la Cina;

d) parallelamente all’azione geopolitica di questi attori statali, si è riscontrato il ruolo assolutamente non secondario delle imprese multinazionali, che, direttamente o indirettamente, sono presenti nella vita economica e politica di questi Paesi, condizionandone le scelte e gli sviluppi. Attraverso la gestione di ampie aree territoriali e il loro controllo militare (non di rado anche mediante forze mercenarie), le multinazionali sono largamente radicate nel tessuto economico e politico di questi Paesi sostenendo spesso una delle parti in conflitto al fine di potersi garantire la prosecuzione delle proprie attività di sfruttamento delle ricche risorse locali.

In conclusione si può notare una bassa attenzione e una scarsa sensibilità verso questi drammi contemporanei. Se si rileva che i grandi network informativi non forniscono adeguate informazioni su tale quadro, non si può non riscontrare che anche nell’ambito delle forze politiche non appare un’adeguata sensibilità. A parte qualche singolo, non sembra che tali tematiche siano significativamente e coerentemente presenti nell’agenda politica della maggioranza delle forze presenti nel Parlamento italiano ed europeo. Inversamente si rileva una crescente attenzione da parte della società civile che, attraverso il volontariato e le ONG, sta creando una rete di solidarietà mondiale alternativa a quella della violenza organizzata, statuale e non. Questo dovrebbe, invece, comportare un adeguato impegno per un rafforzamento e una riforma non più procrastinabile delle Nazioni Unite, per un controllo dell’export degli armamenti, per una politica economica non più di sfruttamento brutale del Nord contro il Sud del mondo, per un maggiore rispetto dei diritti umani.

“NUOVI MEDIA” E LE SFIDE PER LA SICUREZZA

Negli ultimi anni, la quantità di informazioni a noi disponibili è aumentata considerevolmente, grazie ai progressi offerti dalla tecnologia, l’espansione dei media tradizionali (radio, TV, stampa) e l’ascesa del web e dei Social Network. L’affermazione di tali strumenti, oltre a modificare il nostro modo di relazionarsi con gli altri nella vita di tutti i giorni, sta determinando un cambio di passo a livello di comunicazione rispetto ai conflitti internazionali e più in generale, alle questioni di sicurezza offrendo nuove possibilità di costruzione di un “opinione pubblica, cioè “uno spazio che rende pubblico il confronto sulle decisioni di interesse nazionale” (Turato, 2013). Infatti, le interconnessioni tra vecchi e nuovi media, grazie alle possibilità offerte dal WEB, permettono l’interconnessione tra le diverse aree del pianeta, così come forme inedite di fare informazione, con comparsa di nuovi attori all’interno del flusso informativo, come è il caso dei cittadini che, sempre più spesso si fanno reporter dei fatti a cui assistono in prima persona, sfruttando il potenziale offerto da smartphone e dai social network. Tale tecnologia ha reso in grado i cosiddetti ‘Citizen camera witnesses’ [cittadini testimoni con fotocamera, NdT] di utilizzare i propri cellulari per “produrre una testimonianza pubblica e incontrovertibile di situazioni ingiuste e disastri, in una competizione critica che ha lo scopo di mobilitare la solidarietà globale attraverso il potere delle immagini. Ciò è ancora più evidente in relazione alle questioni di politica estera, rispetto alle quali osserviamo il fatto che un numero sempre maggiore di cittadini comuni utilizza le immagini – attraverso gli account sui social media – per documentare e per aumentare la consapevolezza su conflitti, atrocità e sofferenze di persone lontane. Tutto ciò sta modificando il modo in cui raffiguriamo i conflitti nella nostra mente.” Addetti al settore descrivono questo fenomeno come “giornalismo partecipativo”, (citizen journalism) espressione che sta ad indicare il coinvolgimento attivo dei lettori nel circuito comunicativo grazie alla natura interattiva dei nuovi media ma che, tuttavia, non è esente da rischi, visto lo sfumato confine tra l’intento di informare e il desiderio di presenzialismo sul WEB. Gli sviluppi nel campo della comunicazione, hanno così ridefinito il ruolo dei mass media che possono divenire parte attiva nelle crisi e in particolare gli articoli pubblicati nei blog degli attivisti e diffusi attraverso i social network hanno rappresentato, ancor prima delle piazze, il centro da cui sono partiti i moti di protesta contro i regimi dittatoriali in Nord Africa e in Medio-Oriente, al punto che gli studiosi hanno parlato di e-rivoluzioni. Tale avvenimento mette in luce che il progresso tecnico e tecnologico è in grado di allargare il momento della condivisione di un’informazione a un numero sempre più vasto di persone. Al tempo stesso, anche il controverso rapporto esistente tra comunicazione e terrorismo ha trovato un nuovo slancio negli ultimi anni. Infatti, se da un lato questi strumenti moltiplicano le possibilità di conoscenza e di informazione dei cittadini rispetto ai teatri di crisi internazionali, dall’altro sono altrettanto evidenti i rischi, soprattutto in relazione alle attività di propaganda e reclutamento dei gruppi estremisti di natura islamica su tali piattaforme e l’ampliamento delle possibilità di comunicazione tra le cellule terroristiche diffuse nei paesi occidentali e il livello centrale.

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http://www.unicef.it

FILMOGRAFIA

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3. Urla dal silenzio (di Roland Joffé, 1984)

4. Hotel Rwanda (di Terry George, 2005)
5. No man’s land (di Danis Tanovic, 2001)
6. Il prigioniero del Caucaso (di Sergei Bodrov, 1996) 7. Viaggio a Kandahar (di Mohsen Makhmalbaf, 2001) 8. Bloody sunday (di Paul Greengrass, 2002) Inchieste giornalistiche

  1. Tutti gli uomini del Presidente (Alan J. Pakula, 1976)
  2. The Fitfh Estate (Bill Condon, 2013)
  3. Snowden (Oliver Stone, 2016)

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