Il Mediterraneo: un mare non più nostro, non più solo mare
Il Mediterraneo non è solo un mare ma un’area geopolitica nella quale si intersecano le contraddizioni più spinose del nostro modello di sviluppo. E’ un’area segnata da disuguaglianze sociali enormi, da regimi autocratici, da migrazioni di uomini e donne, da rilevanti interessi economici.
Dal secolo scorso, col cambio della struttura egemonica che governava l’intera area, è diventato uno spazio contendibile, non più solo dalle potenze che storicamente ne avevano il controllo, ma da nuovi attori e da nuovi interessi: la Russia, che si è affacciata con un ruolo più assertivo per giocare la propria parte; la Cina, che attraverso la “via della seta” vi vuole stabilire nuovi terminali commerciali; la Turchia, che si pone come garante della fratellanza musulmana, presente in molti Paesi che vi si affacciano. E’ uno scacchiere energetico che coinvolge diversi Paesi, un mare tutt’altro che pacifico, un mare che potrà essere aiutato a trovare pace quando sarà riconosciuto il diritto all’autodeterminazione dei popoli che in quel contesto lo rivendicano e che le risoluzioni delle Nazioni Unite hanno definito da decenni.
L’UE – che ha progressivamente visto fallire il proprio disegno, che doveva farne uno spazio di vicinato con una società e un mercato aperti – è oggi ossessionata nella sua politica estera dal dato migratorio. La società civile dei Paesi della sponda sud, per anni il miglior alleato delle politiche della UE, è oggi disillusa rispetto all’Europa che, nel mentre, ha saputo solo appoggiare acriticamente i regimi autocratici che sono nati e che limitano pesantemente le libertà, i diritti e lo spazio pubblico dei cittadini, per una contropartita ricattatoria del contenimento delle migrazioni. Se riconsiderassimo il bilancio degli ultimi 100 anni scopriremmo una complicità tra colonialismo, poteri europei e élites locali nella sottomissione dei popoli.
Il fenomeno migratorio è uno dei grandi protagonisti dell’area mediterranea: i migranti sono visti sempre meno come esseri umani detentori di diritti, primo tra tutti quello alla mobilità – non necessariamente per un miglioramento delle proprie condizioni ma semplicemente per cambiarle, come ogni altro cittadino europeo. Le responsabilità della politica sono enormi ma non sono le sole: anche una fetta importante di intellettuali e mass media hanno ceduto nell’assumere culturalmente un dispositivo vittimario, costruito intorno alle nostre paure e alla retorica dell’invasione, o, nel migliore dei modi, narrato attraverso la metafora di mani nere che, sul punto di affogare, sono salvate da mani bianche.
La Libia è da considerarsi, nell’intera area, un epifenomeno caratterizzato da una sempre più ampia divaricazione tra entusiasmo diplomatico e situazione reale sul campo e segna il fallimento delle politiche della Comunità internazionale. Un Paese dove si combatte una guerra a bassa intensità, dove le milizie delle singole tribù oggi sono assurte a forze speciali di difesa che controllano le fonti energetiche, i flussi migratori, la vita dell’intero Paese.
Per l’Europa rappresenta un grande bacino di affari economici, dalla ricostruzione all’accaparramento delle ricche risorse del sottosuolo, con l’Italia che ha perso la sua centralità mentre la Turchia ne ha di fatto costituito un proprio protettorato, con delle politiche di controllo delle migrazioni già sperimentate e messe a frutto sul proprio territorio. Le milizie che controllano la Guardia costiera libica sono diventate i veri interlocutori della UE che, invece di indebolirle, fin dal 2017 le ha progressivamente rafforzate dando loro un ruolo negoziale ricattatorio, soldi e addestramento militare.
Abbiamo così finito col proteggere i confini e non le persone e il risultato è che nel Mediterraneo si sta producendo l’equivalente della “deriva dei continenti”, dove sono le comunità ad allontanarsi sempre di più: dobbiamo agire presto, per un dialogo dei popoli e non dei poteri o degli Stati.
Abbiamo bisogno di una nuova narrazione, di un nuovo pensiero sul Mediterraneo, che sappia mettere insieme – circolarmente e olisticamente – le grandi questioni che lo attraversano: dalla giustizia sociale ai cambiamenti climatici, dai conflitti alle negazioni dei diritti umani, dal restringimento degli spazi democratici allo sfruttamento delle risorse naturali, dalle migrazioni umane al commercio di beni.
Abbiamo bisogno di superare gli assetti derivati dagli accordi tra i Paesi vincitori delle grandi Guerre, ricucendo il dialogo da società a società, tra le organizzazioni della società civile dell’Europa e le comunità e le associazioni della sponda sud – da cui tanto potremmo imparare – ricostruendo uno spazio di condivisione e co-sviluppo, che possa farci dare uno sguardo diverso.
Dovremmo rimettere in discussione una UE troppo atlantica e troppo poco mediterranea, dovremmo occuparci maggiormente e criticamente della sua politica commerciale, che fa saltare i sistemi economici del sud aprendo la strada a esiti antidemocratici e autoritari.
Sappiamo anche che la sponda sud del Mediterraneo è molto più giovane di quella nord, demograficamente produce una spinta che non è una bomba, perché è una forza di vita, che da sempre fa la Storia: dovremmo cercare con maggior vigore di stabilire dei canali di empatia con chi è più giovane, che siamo noi stessi qualche anno fa.
Documento elaborato a partire da un percorso di confronto collettivo (con approfondimento tematico seminariale) ed approvato dall’Assemblea nazionale della Rete Italiana Pace e Disarmo – Settembre 2021