La spesa militare europea è nell’interesse dell’umanità?
Un’analisi sulla crescita dei fondi per armi ed eserciti dell’EU (almeno il 2% del bilancio) e dei suoi Stati Membri (la cui spesa militare complessiva è aumentata di quasi il 30% in otto anni), a partire dal lavoro della rete ENAAT (European Network Against Arms Trade) di cui anche Rete Italiana Pace e Disarmo fa parte.
La spesa militare aggregata dell’UE e dei Paesi europei della NATO ha raggiunto i 346 miliardi di dollari nel 2022, con un aumento dell’1,9% in termini reali rispetto al 2021 e del 29,4% rispetto al punto di minimo del 2014. È quasi quattro volte la spesa della Russia e l’1,65% del PIL totale. Ciò può sembrare logico in tempo di guerra. Ma le cose sono davvero così semplici? In Europa spesso rivendichiamo l’umanesimo e l’illuminismo come principi centrali. Questi ci impongono di valutare una politica in termini di contributo al progresso dell’umanità, da un lato, e della ragione, dall’altro. È quindi legittimo, anzi essenziale, chiedersi in che misura questo aumento delle spese militari risponda alle sfide che l’umanità deve affrontare oggi, e quali ne siano la logica e le conseguenze, al di là della legittima emozione suscitata dall’ingiustificabile invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
Oltre alle spese militari nazionali, la stessa Unione Europea ha aumentato esponenzialmente il proprio bilancio in armamenti in pochi anni. Mentre i Trattati europei per lungo tempo hanno escluso l’uso del bilancio comunitario per attività di questo tipo, oggi l’UE destina almeno il 2% del suo bilancio a scopi militari. A parte gli aiuti militari all’Ucraina, si tratta principalmente di finanziare l’industria degli armamenti attraverso il Fondo europeo per la difesa (European Defence Fund EDF) o il Fondo per le nuove munizioni (ASAP), ma anche attraverso l’accesso facilitato alla maggior parte dei fondi strutturali europei, Erasmus+ per rendere il settore più attraente per i giovani laureati, o il programma ambientale LIFE per sviluppare armi “verdi”. Il fatto che il Fondo EDF e l’ASAP si basino sulla competenza dell’UE in materia industriale e siano guidati dal Commissario responsabile del mercato interno e dell’industria, illustra già la logica sottostante: si tratta innanzitutto di sovvenzioni per sostenere la competitività dell’industria militare europea, anche a livello internazionale. Cioè, sostenere le esportazioni di armi che poi alimentano la corsa agli armamenti globale e i conflitti in tutto il mondo.
Non sorprende quindi che solo 4 Paesi ricevano quasi i 2/3 del budget stanziato finora dal Fondo per la Difesa: Francia, Italia, Spagna e Germania, ovvero le 4 principali potenze militari dell’UE e i maggiori esportatori di armi al mondo. Eppure, l’aumento delle spese militari e il commercio globale di armi hanno un impatto diretto sulla pace.
Un recente studio empirico ha confermato che sia la spesa militare che le esportazioni/importazioni di armi influenzano il coinvolgimento degli Stati nei conflitti armati: l’aumento della spesa militare o delle esportazioni/importazioni di armi di uno Stato aumenta la probabilità che questo Stato sia coinvolto in uno o più conflitti armati. Inoltre, più alta è la spesa militare di un Paese, più alte tendono ad essere le sue esportazioni e/o importazioni di armi.
Quando i Paesi destinano una quota maggiore del loro bilancio a scopi militari, la probabilità che siano coinvolti in conflitti armati aumenta, poiché tendono a fare affidamento sull’importazione di armi e soluzioni militari per soddisfare le loro esigenze di sicurezza, a scapito di approcci pacifici. Inoltre, quando un Paese aumenta le proprie spese militari, ciò può causare un maggiore senso di insicurezza tra i rivali regionali, inducendoli a loro volta ad aumentare le spese e così via, alimentando una corsa agli armamenti.
La spesa militare influisce inoltre sulle emissioni di gas serra, una minaccia esistenziale per l’umanità: lo stesso studio empirico suggerisce che più alta è la spesa militare di un Paese, più alte sono le sue emissioni di CO2. Sette dei primi dieci inquinatori storici sono anche tra i primi dieci spenditori militari globali (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Giappone e Germania). Inoltre, se le forze armate del mondo insieme fossero un Paese, avrebbero la quarta impronta di carbonio nazionale più grande al mondo, poiché le emissioni militari sono stimate al 5,5% dei gas serra globali. Questo dato comprende le emissioni dei veicoli militari, delle basi e della catena di approvvigionamento a monte (compresa l’industria). Mancano dati affidabili sulle emissioni derivanti dall’impatto dei combattimenti bellici (incendi, danni alle infrastrutture e agli ecosistemi, ricostruzione…), il che significa che l'”impronta di carbonio militare” potrebbe essere molto più alta. E i nuovi sistemi d’arma che vengono attualmente acquistati, molti dei quali con una durata di vita fino a 30-40 anni come il caccia F-35, sono molto più inquinanti della generazione precedente. Attualmente non esiste un’alternativa alla propulsione a combustibili fossili per l’aviazione (civile o militare) che si avvicini lontanamente al livello di necessità, mentre la necessità di ridurre drasticamente le emissioni è attuale e non può aspettare un altro decennio o due.
A beneficiare in modo tangibile del drastico aumento della spesa militare europea sono soprattutto le industrie belliche: le 15 principali aziende europee produttrici di armi hanno già visto aumentare le loro vendite dell’1,5% (per un totale di 95,8 miliardi di euro) e i loro profitti dell’11,2% nel 2022. L’industria degli armamenti ha approfittato dello shock generato dall’invasione russa per posizionarsi, contro ogni evidenza, come attore indispensabile, “sostenibile” e “pacificatore”, alimentando ancora di più la corsa agli armamenti e il ciclo economico militare. Dal punto di vista politico, ciò si riflette anche in un nuovo preoccupante sviluppo della narrazione nell’ambito dell’Unione Europea, che era già passata dallo “sviluppo per la sicurezza” alla “sicurezza per lo sviluppo”: oggi, la sicurezza si limita alla difesa e “la difesa inizia con l’industria”.
In un momento storico in cui i Paesi più ricchi spendono 30 volte di più in spese militari che in finanziamenti per il clima a favore dei Paesi più vulnerabili del mondo, l’Europa non ha bisogno di diventare un’altra superpotenza militare. La spesa militare europea è già di gran lunga superiore a quella della Russia, e il percorso verso la competizione economica e persino il confronto con la Cina va contro la necessaria cooperazione internazionale per combattere il cambiamento climatico.
L’Europa è un continente forte grazie alla cooperazione che ha instaurato tra gli Stati membri a partire dal 1958, nonostante difficoltà e limiti, e il cui obiettivo primario era evitare una nuova corsa agli armamenti tra gli Stati. Questa esperienza di lavoro tra nazioni diverse è ciò che l’Europa dovrebbe promuovere per portare un altro tipo di sicurezza nel mondo. Una sicurezza basata non sulla potenza militare ma sul dialogo e sulla cooperazione, sulla giustizia climatica e sulla pace positiva. Per questo, l’Europa deve ridurre le spese militari e riassegnare le risorse alla lotta contro il cambiamento climatico e alla transizione verso un’economia verde ed equa per tutti i popoli.
articolo originale di Laetitia Sedou (Project Officer di ENAAT)
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