ALDO CAPITINI, “profeta e apostolo”
di Chiara Mori
Movimento Nonviolento – Modena
- Cenni biografici
Aldo Capitini nasce nel 1899 a Perugia, figlio del campanaro del Municipio, e cresce in un’abitazione ricavata all’interno della torre campanaria della città. Dovendo presto trovare un’occupazione per contribuire al modesto reddito familiare, frequenta un Istituto per ragionieri, ma questo tipo di studi non lo soddisfa, ottiene quindi privatamente il diploma di liceo classico, che gli consentirà di vincere una borsa di studio alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Qui si distingue per l’intelligenza vivace tanto che, una volta laureato (nel 1928, in Lettere e Filosofia), il direttore Giovanni Gentile gli offre il posto di segretario, a cui si affiancherà quello di assistente del critico letterario Attilio Momigliano.
Nel ’32, a causa della sua amicizia con Claudio Baglietto – giovane normalista che, ottenuta una borsa di studio in Germania, si dichiara obiettore di coscienza e non rientra più in Italia – Gentile gli chiede di fare un atto di adesione formale al regime prendendo la tessera del partito fascista. Capitini fa la sua obiezione di coscienza: rifiuta la tessera e viene licenziato. Lui stesso riporta il breve dialogo che si svolse tra loro:
“Gentile: credo che non riuscirei a persuaderla. Capitini: credo che anch’io non riuscirei a persuadere lei”
Così, all’ inizio del ’33 è costretto a tornare dai genitori nella torre campanaria di Perugia.
Durante gli anni della guerra e della Resistenza mantiene una posizione antifascista non armata che lo porterà a doversi nascondere nella campagna umbra dopo essere stato per due volte (nel ’42 e nel ’43) nelle carceri fasciste.
“io mi tenni lontano da ciò che era esaltazione della Resistenza armata, deciso a non partecipare nemmeno ai congressi sul tema, perché non volevo né criticare ciò che gli altri avevano fatto con tanto coraggio ed eroismo, né perdere quella doverosa affermazione che mi toccava, di un metodo diverso, del sogno che gli Italiani si liberassero da sé dal fascismo con un’eroica noncollaborazione e disobbedienza civile”.
Dopo essersi mantenuto con lezioni private, rientrerà nel mondo accademico solo nel 1956, come docente di Pedagogia a Cagliari.
Intanto, nel dopoguerra, Capitini si impegna su vari fronti: il sostegno all’obiezione di coscienza all’obbligo militare, la costituzione di mezzi atti a mettere in pratica le sue idee di radicale trasformazione sociale: i COS (Centri di Orientamento Sociale, il cui motto è il contrario del fascista “obbedire e combattere”, ossia “ascoltare e parlare”), il COR (Centro di Orientamento Religioso, a Perugia, per l’urgenza di una profonda riforma religiosa in Italia), l’ ADESSPI (Associazione per la Difesa e lo Sviluppo della Scuola Pubblica), la Società Vegetariana Italiana.
Organizza nel ’61 la prima Marcia Perugia-Assisi (Marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli), fonda nel 1962 il primo Centro Italiano per la Nonviolenza (poi Movimento Nonviolento) e nel 1964 la rivista Azione Nonviolenta.
Muore nel 1968 per le conseguenze di una duplice operazione.
Così l’ha descritto, in una sua poesia, Danilo Dolci, con cui Capitini fu a lungo in contatto:
“basso ma (che) vedeva lontano
impacciato a camminare
ma enormemente libero e attivo,
concentrato
ma aperto alla vita di tutti
non ammazzava una mosca
ma era veramente un rivoluzionario
miope ma profeta.
2. La compresenza, cuore del pensiero e della prassi di Capitini
“Tutti gli esseri che mai furono e che sono, morti e viventi, costituiscono una compresenza che s‘accresce dei nati, che è tenuta insieme ed unificata dalla produzione dei valori”
La riflessione di Capitini parte dal porsi di fronte al problema, anzi all’esperienza del male, della sofferenza, del limite, da cui tutti, ma con particolare evidenza gli ultimi (gli sfruttati, i malati, i dimenticati, i pallidi, gli smorti…) sono affetti:
“Ho sofferto acutamente nel vedere, proprio al centro della mia attenzione, che c’è chi è colpito dalla realtà com’è ora: l’ammalato, l’esaurito, lo stolto, il morto, e mi sono messo in rapporto – attraverso il tu a quell’infelice – con una realtà che non lo escluda e lo tenga unito con altri esseri che sono nati (realtà di tutti), e lo renda uguale e lo compensi sviluppandosi anche lui infinitamente nella cooperazione ai valori, come chi è sano, vigoroso, vivente (Compresenza). Questa apertura alla compresenza si può chiamare religiosa, se “religione” è vivere un rapporto (che sia fondamentale nel proprio svolgersi) con “altri”. E l’apertura religiosa è pratica, perché la realtà della compresenza non la posso conoscere scientificamente come le parti della realtà attuale, ma la posso vivere mediante impegni in atto nel tu-tutti che le rivolgo”.
La coscienza della finitezza, vissuta anche in prima persona, nella fragilità del proprio corpo, e l’insoddisfazione verso la realtà così com’è lo portano all’intima e religiosa persuasione che ciò che appare incompleto, ferito, chiuso nel dolore (sia nell’ambito della società che della natura) può essere superato in una dimensione dinamica della realtà:
“Mi pare di aver mostrato che il conoscere il mondo è connesso al volerlo cambiare”
E’ una tramutazione radicale che rappresenta l’orizzonte ultimo, escatologico, del percorso umano (e anche dei viventi non umani); orizzonte mai raggiunto né oggetto di pura conoscenza razionale, e tuttavia esperibile quotidianamente, come se fosse già realizzato, grazie all’aprirsi dell’anima ai singoli tu, a tutti i tu, ovvero al tu-Tutti (“Tutti” come plurale di “tu”)
“ La carità diventata apertura ad ogni essere umano e subumano, mette nel tu verso di lui, proprio verso la sua individualità inconfondibile e irripetibile, non solo rispetto ed affetto alla sua esistenza, ma anche interesse alla sua libertà e al suo sviluppo, al suo contributo alla produzione dei valori. L’apertura è nonviolenza, è nonmenzogna, che considera vicini al nostro pensiero anche i lontani; è perdono, aiutando a dimenticare il passato tormentoso; è fiducia nella possibilità che ogni essere faccia meglio e produca valori, oltre ogni ostacolo; è aggiunta al modo di vivere degli altri, senza chiedere o imporre; è mano tesa agli ultimi, agli infermi, ai pallidi, agli stroncati, ai miseri, ai pazzi, ai morti, a chi meno ha, a chi meno è, per fare che essi abbiano, che essi siano. La carità, divenuta apertura religiosa, siede in silenzio vicino al morente, con la certezza che egli non andrà nel nulla, ma, lasciato il suo corpo, sta nell’intima compresenza da cui sorgerà una realtà liberata”.
Ricorrono qui termini ed espressioni centrali in Capitini:
- apertura a tutti gli esseri, umani e non umani, viventi e non più viventi;
- produzione dei valori: contro l’impostazione culturale dominante, fondata sull’individualismo, che attribuisce la creazione dei valori agli individui isolati (grandi opere, gesti esemplari…) per Capitini ciascun valore (il bello, il buono, il giusto…) è in realtà “opera di tutti i singoli esseri nati fino a quel punto”. Ciascuno ci ha messo qualcosa (coralità)
- aggiunta: “Cioè per ogni essere io pongo la possibilità di fare un atto di aggiunta a ciò che risulta storicamente (anche malato, pazzo, morto), vedendolo sempre come produttore di valori nella compresenza di tutti…)
- compresenza dei morti e dei viventi, nessuno escluso: “Perché i “bisogni” dovrebbero essere soltanto alcuni e non anche quelli volti ad una realtà liberata dal peccato, dal dolore, dalla morte? e per soddisfare questi bisogni, non può l’individuo operare creando il valore (come preaccenno della realtà liberata) insieme con gli altri nella compresenza? Non è anche un bisogno dell’uomo quello di chiarire il rapporto, il tu, con la madre morta?”
3. Nonviolenza, nonuccisione, noncollaborazione
Per Capitini il passaggio dall’io al tu-Tutti ha una conseguenza pratica decisiva: non uccidere, non dare la morte né col pensiero, né coi fatti. Quindi la nonviolenza come “la scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente”
“[…] possiamo esplicitamente definire la nonviolenza come unità amore verso tutte le persone nella loro individualità singola e distinta, persona da persona, con vivo interesse anche alla loro esistenza, in un atto di rispetto ed affetto senza interruzione, con la persuasione che nessuna persona è chiusa nel suo passato, e che è possibile dire un “tu” più affettuoso e stabilire un’unità più concreta con tutti. Come tale dunque, la nonviolenza è tutt’altro che passiva, anzi è attiva e inventiva, aperta ad una trasformazione della realtà e della società, in ciò che esse sono violenza, oppressione, morte e pesce grande che mangia pesce piccolo. La nonviolenza è, perciò, iniziativa di qualche cosa di diverso, auspicante una trasformazione. ”.
“L’uso della violenza si è molto diffuso oggi anche per sostenere intenzioni che altre volte si affermavano altrimenti; i vecchi scrupoli si vanno perdendo […] se uno la pensa diversamente da me, eliminandolo non avrò più quel fastidio; resta da vedere a che cosa si riduce la mia vita dopo, e se non sorgeranno prima o poi cinquanta al posto di quello che ho ucciso. Questi successi hanno il potere di inebriare, come sempre, le persone grossolane, tutte volte all’esterno, e pronte a vantare il valore della forza finché non trovano altri più forti. Tanto dilagheranno violenza e materialismo, che ne verrà stanchezza e disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un’ apertura infinita dell’uno verso l’altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia”.
“Il rifiuto della guerra e della sua preparazione è la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso”
E, a poche settimane dalla morte, scrive:
“Si sa che cosa significa, oggi specialmente, la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage di innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso”.
Di qui, l’impegno di Capitini per il riconoscimento dell’ obiezione di coscienza e la lunga amicizia con Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza “politico” italiano nel 2° dopoguerra (prima di lui, c’erano stati obiettori per ragioni religiose, fra cui i Testimoni di Geova), incarcerato per la sua opposizione al servizio militare.
4. I mezzi della nonviolenza
Per Capitini la nonviolenza non è una proposta utopistica che prefigura un mondo senza conflitti, ma un metodo “aperto e sperimentale”, teoria e prassi insieme, per affrontare e gestire i conflitti in maniera non distruttiva “senza sospendere mai l’amore per le singole persone anche autrici di quei mali, ma non esaurientisi in essi”. Anche al violento viene data la possibilità di aprirsi ad altro e ad altri e di collaborare intimamente nell’affermazione del bene.
Contro una visione della politica in cui i fini giustificano sempre i mezzi (Machiavelli), egli afferma l’assoluta coerenza tra mezzi e fini. E i mezzi della nonviolenza non sono esclusivamente “tecniche”, perché richiedono la consapevolezza e la persuasione di ciascuno. Capitini ne dà un lungo elenco, che dall’individuo si allarga via via alla collettività: il dialogo, l’esempio, il digiuno, la noncollaborazione, l’obiezione di coscienza, la disobbedienza civile, le marce, lo sciopero, il boicottaggio, il sabotaggio, i piani di azione diretta nonviolenta.
5. La concezione politica: il potere di tutti, l’omnicrazia
Capitini descrive con preoccupazione il problema del potere, sempre più lontano e delegato:
“Si riconosce l’enorme pericolo della concentrazione di tanto potere esecutivo in poche mani: poche persone decidono nel campo militare, politico, economico, di tutti gli esseri viventi; gli attuali controlli sono apparenti e insufficienti; l’individuo sente sempre più che poteri a lui estranei decidono su tutto, senza tenere minimamente conto di ciò che lui voglia, anzi ingannandolo per creare consenso pubblico fittizio mediante un enorme dispiegamento di mezzi di comunicazione di massa […]. Le decisioni circa le spese, circa i programmi culturali, circa la politica nazionale e internazionale e perfino circa la guerra, passano sul capo dei singoli individui”.
L’attività politica di Capitini rispecchia i suoi profondi convincimenti: dopo essere stato nel 1937 tra i fondatori del movimento clandestino del Liberalsocialismo (“massimo socialismo e massimo liberalismo”), non ne condivide il successivo scioglimento nel Partito d’ Azione; svolge infatti una critica severa alla forma-partito, che vede fondata sulla dicotomia mezzi-fini, e apre una prospettiva diversa di azione politica, nella quale il fine si realizzi già nel mezzo.
Di fronte ai limiti della democrazia rappresentativa, propone “il potere di tutti, l’omnicrazia”.
Crea quindi i COS (Centri di Orientamento Sociale) come mezzi di partecipazione e controllo dal basso, e contemporaneamente di educazione degli adulti:
“al COS si imparava ad esprimere il proprio pensiero in maniera evidente e semplice, ma s’imparava anche a lasciar parlare gli altri; e in questo modo si svolgeva un collaborante pensiero collettivo […] sono stati trattati argomenti delicatissimi, e in riunioni affollatissime e dopo ventidue anni di fascismo. Ma il popolo sapeva che il COS era diverso, e ne aveva rispetto. Il COS era uno spazio nonviolento e ragionante”.
6. L’orientamento religioso
Come in ambito politico, così in quello religioso Capitini unisce alla severa critica verso l’esistente la tensione appassionata verso una radicale trasformazione della realtà. Nettamente contrario al Concordato del ’29, prende le distanze dalla Chiesa cattolica preconciliare, accusata di perpetrare la sottomissione dei fedeli, e s’impegna costantemente per un rinnovamento che apra le chiusure ecclesiastiche; costituisce a Perugia il COR (Centro di Orientamento Religioso) nel quale s’incontrano eretici, laici e protestanti.
Centrale nel suo pensiero è non la fedeltà al dogma o all’istituzione, ma alla coscienza che, nell’atto d’amore con cui si rivolge all’altro, al “tu” che diviene progressivamente “Tutti”, realizza nella prassi i valori, superando sia la trascendenza che l’individualismo, verso la tramutazione della umanità-società-realtà. E’ quindi una religione universale, fondata sulla nonviolenza, oltre tutte le religioni.
7. L’educazione
Capitini guarda all’educazione come a un potente mezzo di trasformazione, che si radica nella relazione dell’educatore col “tu” del fanciullo, e così facendo innesca una rivoluzione profonda e strutturale della società. Per questo l’educazione non si esaurisce nelle tecniche, né nei contenuti, ma tende a ricreare il mondo su basi nuove, ponendo al centro la creatività dei fanciulli, che è sempre libera, aperta e gioiosa. I fanciulli sono “i figli della festa”, sono “davanti, non dietro di noi”, portatori di un futuro che, in modi ancora sconosciuti e imprevedibili, si realizzerà attraverso di loro. E’, anche qui, un atteggiamento “religioso”, teso verso una realtà liberata dai limiti e dalle insufficienze di ciò che è.
“Posto che la democrazia è accettazione e comprensione delle differenze, come apertura tra i diversi, il dovere è di calare nella scuola lo spirito del dialogo e dell’apertura reciproca, concretando così la scuola di tutti: è evidente che una scuola ideologicamente uniforme e chiusa, può molto più facilmente portare alle ostilità e alla guerra, perché educa a considerare le diversità come innaturali, disturbanti, diaboliche, controproducenti, mostruose, da eliminare in nome dell’ideologia appresa. Mi pare che sia chiaro a quasi tutti che il rapporto tra la pace e la scuola non si stabilisce imponendo e sostituendo semplicemente contenuti nazionalistici e guerreschi, ma in modo molto più complesso”.
Ogni ambito educativo (scuola, famiglia, gruppi amicali…) è investito da questa apertura:
“Ma le occasioni di amore debbono anche essere fuori dalla famiglia, e guai a dare al fanciullo l’impressione che la famiglia sia il quadrilatero dell’esclusivismo. Egli deve vedervi un organismo aperto, un campo di esercizio e di fruizione che è anche allenamento all’apertura ad altri […] Bisogna non far sentire uno stacco netto tra parenti e non parenti: la famiglia si apre continuamente all’amicizia, e questa è fermissima. Perché, e questa è un’altra cosa ottima, il fanciullo non fa una distinzione tra amore e amicizia; se gli dite: in me tu hai un amico sicuro; gli dite moltissimo ed egli lo apprezzerà profondamente, vorrà essere anche lui così, magari subito col cane. […] Sta nell’educatore mostrare (e in ciò confermare il fanciullo) che l’amicizia è interessamento alla situazione in cui l’altro si trova, attenzione agli altrui problemi, intervento a risolverli quando sia necessario. E qui il fanciullo deve ben presto vedere che questi provvedimenti sono presi in comune, non per elargizione personale in cui potrebbe esserci qualche cosa di egoistico e di esibizionistico. Il fanciullo deve al più presto assistere ed essere poi ammesso in gruppi deliberanti: se c’è da prendere una decisione importante in famiglia, nel vicinato, altrove, se c’è da fare un progetto, si attua il metodo della discussione.
8. La scelta vegetariana
Conseguente all’impegno radicale per la nonviolenza, la nonuccisione, è la scelta di Capitini per il vegetarianesimo, maturata fin dagli anni del fascismo, e portata avanti nell’ottica di una consapevole e affettuosa apertura al tu-Tutti, nessuno escluso, compresi quindi gli esseri subumani, in primis gli animali; ma, nella visione complessiva di una realtà in cui ogni forma di vita, perfino la più apparentemente insignificante, coopera nella compresenza alla produzione dei valori, anche i prodotti della terra, le pietre, l’acqua… sono visti con rispetto e affetto:
“Ma c’è come una prima e più elementare forma di amore religioso, ed è quello che muove verso le cose, che tutte sono sorelle a me come individuo limitato, naturale. La nonviolenza verso le cose sta nel metterle su questo piano, nel non mostrare burbanza in mezzo ad esse, nel considerarle anzitutto come contenuto di amore religioso al di sopra di ogni utilità, proprio come presenza del nostro intimo ad esse, e poi come nostre collaboratrici nel bene. Noi le adoperiamo: senza di loro che faremmo? Ma adoperare una cosa per il male è la forma più elementare di violenza che facciamo alla cosa… E’ violenza lo sciuparle, il mutarle di luogo senza ragione, la mancanza di cura e di intelligenza nel lavorarle, il non pensare a che cosa facciamo dinnanzi ad esse, lo studiarle malamente o soltanto per l’utile, senza sentire che si studiano anche per amore, come è la vera scienza… Col vegetarianesimo (cioè non nutrendosi della carne di animali macellati, ma di prodotti della terra, e di derivati dagli animali ma senza ucciderli) si realizza principalmente il riconoscimento del valore dell’esistenza di quegli esseri animali contro i quali si decide di non usare l’uccisione e, di riflesso, si realizza una maggior persuasione che non si debba usare violenza verso gli esseri umani”.
9. Capitini e Gandhi
Capitini conosce, studia e diffonde in Italia il pensiero di M.K. Gandhi. Lo considera colui che ha creato l’equilibrio perfetto tra religione e politica (come, prima di lui, fecero Francesco d’Assisi e Giuseppe Mazzini, l’uno più orientato sul piano religioso, l’altro su quello politico):
“[Gandhi] trasse la nonviolenza da pratica di asceti o di piccole comunità religiose e ne fece sentimento, prassi, metodo di lotta per milioni di persone”. Egli sottolinea come il metodo “satyagraha” (“fermezza nella verità”) sperimentato dal movimento gandhiano
“basato sul principio religioso di dare il bene per il male, di prendere su di sé la sofferenza, tende a risvegliare negli avversari l’amore, l’elemento divino, la coscienza del Bene, la Verità, appunto che tutti unisce”
sia vicino alla propria concezione della costruzione collettiva dei valori, alla quale partecipano tutti, anche gli avversari. E’ l’essenza della nonviolenza.
- Bibliografia
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https://www.youtube.com/Antonino Drago: l’aggiunta e la nonviolenza in Aldo Capitini
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https://www. rai cultura.it. Aldo Capitini: la pratica nonviolenta (filmato dell’Archivio RAI
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https://www.sns.it/Adriano Fabris: esperienza religiosa e nonviolenza in Aldo Capitini
(28 gennaio 2019)
https://www.sns.it/Roberto Mancini: la via di Aldo Capitini (4 marzo 2019)
https://www.sns.it/Pietro Polito: il potere è di tutti. Aldo Capitini dall’antifascismo all’omnicrazia (29 aprile 2019)
Altre indicazioni su: Fondazione Centro Studi Aldo Capitini