Conflitto e Pace alcuni elementi di base per orientarsi

Conflitto e Pace alcuni elementi di base per orientarsi


di GIANMARCO PISA, Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Corpi Civili di Pace

  1. Cos’è un «conflitto»?

Nel linguaggio comune è frequente la confusione tra i termini conflitto, guerra, controversia; in particolare, i termini conflitto e guerra sono spesso usati in modo apparentemente interscambiabile, al punto da generare l’erronea propensione a considerarli, di fatto, come sinonimi.
I due termini vanno invece distinti perché esprimono concetti e alludono a situazioni diverse. In linea generale, laddove per conflitto (dal latino conflictus, «scontro») si intende la situazione di incompatibilità tra due o più soggetti derivante dall’esistenza di ragioni, interessi, bisogni, obiettivi e finalità contrastanti o divergenti, per guerra si intende, invece, la manifestazione del conflitto, in forma armata e attraverso il ricorso alla violenza, tra soggetti organizzati, tipicamente entità, organizzazioni, Stati.
Se dunque il conflitto esprime una condizione non necessariamente “negativa” in sé, dal momento che è legata alle inevitabili differenze che si manifestano tra due o più persone o tra due o più entità, e quindi può avere una valenza “positiva”, nel momento in cui, gestito opportunamente, genera soluzioni creative o ipotesi precedentemente inesplorate, la guerra ha inevitabilmente una connotazione negativa, legata al portato distruttivo dell’utilizzo della violenza e, in particolare, del ricorso alle armi.

Il conflitto può attraversare ambiti, personali e sociali, i più diversi. Ad esempio, nella letteratura psico-sociale, il conflitto è spesso definito come uno stato di tensione in cui il soggetto può venire a trovarsi quando sottoposto alla pressione di istanze contrastanti a causa di una situazione che il soggetto stesso ha creato o che è stata determinata da altri. Anche questa lettura, in termini estensivi, indica che, affinché ci sia un conflitto, è necessario che ci siano almeno due entità, idee o posizioni contrastanti.
Di conseguenza, il contrasto che deriva da tale contrapposizione o divergenza può avere sede nella psiche umana così come può avere luogo tra persone, gruppi e Stati. Tra le persone, è fatto comune dell’esperienza umana riscontrare l’esistenza di percezioni diverse della realtà, il che può essere, di per sé, fonte di conflitto. Nella società si riscontra correntemente il fatto che possano sorgere conflitti in relazione ai bisogni, alle rivendicazioni e alle istanze che gruppi distinti, portatori di interessi diversi, esprimono.

Tra gli Stati, i conflitti e le controversie, che sorgono in relazione a interessi, obiettivi e strategie divergenti o contrastanti, possono essere composti in via pacifica, attraverso gli strumenti della diplomazia, o possono degenerare in scontro armato, dunque in guerra, e dare luogo a condotte ed effetti distruttivi. Già da questo si evidenzia il fatto che il problema non risiede tanto nel sorgere del conflitto in sé, quanto piuttosto nell’affrontarlo come un problema riconosciuto, condiviso, da gestire in modo costruttivo.
Una possibile classificazione dei conflitti (con il livello al quale si situano) è la seguente:

  1. conflitti intra-personali,
  2. conflitti inter-personali (micro),
  3. conflitti inter-gruppi (meso) e
  4. conflitti inter-nazionali (macro).

In generale, per completare questa disamina preliminare, le fonti del conflitto secondo il Format «Costruiamo Una Pace» del CBI (Consensus Building Institute) sono le seguenti:


a. gli interessi (ciò che noi vogliamo e ciò che essi vogliono),
b. i valori (come la realtà dovrebbe essere per noi e per loro),
c. le emozioni (cosa noi sentiamo/proviamo e cosa essi sentono/provano),
d. le identità (chi siamo o cosa desideriamo essere ritenuti noi/loro).

2. Conflitti, controversie e altre problematiche


Ancora più generale è il concetto di controversia (dal latino controversus, «controverso»), che esprime una differenza o divergenza legata a una contrapposizione. È quindi opportuno distinguere e interpretare le diverse situazioni problematiche (e i modi per gestirle) legate al sorgere delle differenze e al manifestarsi delle incompatibilità.
Le situazioni problematiche, infatti, variano significativamente per tipologia, intensità e complessità. Le due distinzioni fondamentali riguardano i seguenti ambiti:

1DifficoltàControversie
2DisordiniConflitti


• i Disordini non rappresentano solo problematiche di dimensioni più ampie delle Difficoltà, ma hanno anche caratteristiche che li rendono qualitativamente differenti.
• i Conflitti non costituiscono solo delle estensioni delle Controversie, ma hanno caratteristiche diverse perché coinvolgono una pluralità di fattori e di attori distinti.
Si può dire, in base alla letteratura sull’analisi del conflitto, che la differenza tra le due categorie riguardi almeno quattro ambiti:

  1. la dimensione: configurazione del problema e numero degli attori,
  2. la scala spazio-temporale: ambito territoriale e scala temporale di estensione del problema, luoghi/tempi per la soluzione,
  3. le variabili: chi/cosa è coinvolto, quantità e qualità delle risorse impegnate, interconnessione tra le diverse variabili, e
  4. le opzioni: possibilità e soluzioni praticabili caso per caso.

La distinzione tipologica che racchiude le altre è quella che stabilisce anche la differenza sostanziale tra le due categorie:

  1. le Difficoltà e le Controversie sono circoscritte e limitabili, mentre
  2. i Disordini e i Conflitti non sono immediatamente circoscritti e non sono facilmente limitabili, se non con l’applicazione di opportune modalità e strategie.

3. L’approccio alla gestione dei conflitti

Gli approcci alla gestione dei conflitti possono essere in generale di due tipi:
• costruttivo (modello win-win, vale a dire io vinco/tu vinci) e
• distruttivo (modello win-lose, vale a dire io vinco/tu perdi).

Il modello classico considera il conflitto come un gioco a somma zero per cui «io vinco – tu perdi». Il modello costruttivo considera invece il conflitto un problema condiviso da risolvere insieme, proprio perché riguarda tutti i soggetti coinvolti nel conflitto stesso.
Gli approcci possibili nella risoluzione della problematica o nella mediazione della controversia possono abitare un qualsiasi livello intermedio tra quello di massima assertività e minima cooperazione e quello di minima assertività e massima cooperazione.
In questo contesto:
• l’assertività è il livello di intenzionalità con cui si perseguono i propri obiettivi,
• la cooperazione è il livello di intenzionalità reciproca con cui si perseguono gli obiettivi condivisi.

Il conflitto, dal punto di vista delle sue implicazioni, è l’effetto complessivo prodotto dalla contraddizione operante all’interno di un gruppo o esistente tra più gruppi distinti, purché vi siano un coinvolgimento di più fattori e diversi livelli di problematicità.
I cinque aspetti del conflitto sono infatti: 1) la contraddizione, 2) i bisogni, gli interessi, i valori, 3) le emozioni, 4) le risorse, 5) gli obiettivi.
Le modalità di soluzione della controversia possono essere improntate ad approcci diversi (ad es. assertivo o facilitativo) ma possono essere ricondotte in generale ad uno dei seguenti tre macro-ambiti:
▪ non-intervento,
▪ prevenzione,
▪ risoluzione.

I compiti legati alla risoluzione della controversia, di conseguenza, alla luce di tali macro-ambiti di riferimento, possono spaziare lungo un’ampia gamma di opzioni, quali:

a. la prevenzione del conflitto,
b. il lavoro sulle cause per prevenire l’escalazione,
c. la predisposizione di un clima costruttivo e di un ambiente collaborativo,
d. la riformulazione del problema,
e. l’individuazione dei bisogni condivisi e degli obiettivi comuni,
f. la facilitazione, il supporto, la mediazione e
g. la trasformazione del conflitto.

A differenza della negoziazione, che si sviluppa direttamente tra le parti della controversia, la mediazione presuppone l’intervento di una parte terza che deve essere: non personalmente coinvolta nel conflitto, chiamata a intervenire su «richiesta leggibile» delle parti, equanime o «equivicina», non-partigiana e non impositiva.
Le tipologie della mediazione possono quindi rientrare in due macro-ambiti:

  1. la «mediazione conservativa», basata sul positional bargaining (contrattazione di posizione) in cui le parti costruiscono una contrattazione distributiva a partire dalle rispettive posizioni, e
  2. la «cooperazione nel conflitto», orientata ad un problem solving (risoluzione del problema) condiviso, in cui le parti si impegnano a perseguire obiettivi comuni sovraordinati.

Il modello di «cooperazione nel conflitto» prevede una serie di elementi fondamentali:

▪ verificare le percezioni delle parti: la percezione di sé e dell’altro; di valori, interessi e bisogni propri ed altrui; del problema che si ha di fronte e della relazione nel suo complesso;

▪ individuare, al di là delle rivendicazioni contrapposte, i bisogni individuali e i bisogni condivisi;

▪ sviluppare il «potere con» più che il «potere su», abbandonando l’idea che la soddisfazione dei propri bisogni passi per il dominio o la sconfitta dell’avversario;

▪ identificare le doables (doable steps), piccoli passi, concreti, per affrontare alcuni aspetti del conflitto, mettendo in moto il circolo virtuoso della cooperazione;

▪ giungere, infine, ad accordi complessivi che possano risultare soddisfacenti per tutte le parti e siano capaci di porre le basi per una relazione migliore nel futuro.

Un approccio costruttivo alla risoluzione dei conflitti richiede alcune applicazioni positive:
a. separare le persone dai problemi – non identificare le persone con i problemi,
b. distinguere i bisogni dalle rivendicazioni,
c. focalizzare gli interessi e non le posizioni,
d. individuare le aree di comune interesse e
e. lavorare sui bisogni condivisi.

4. L’approccio alla trasformazione dei conflitti

L’approccio costruttivo alla trasformazione dei conflitti si basa, tra le altre, sulla ricerca teorica e pratica di Johan Galtung, figura centrale degli studi per la pace e fondatore del metodo «Transcend». Per quanto sia difficile schematizzare in pochi punti il pensiero di Galtung, è possibile tuttavia individuarne alcuni capisaldi:
a. l’individuazione di diverse matrici della violenza (strutturale, culturale, diretta o fisica) sulle quali intervenire per giungere a ipotesi di superamento della violenza capaci di interagire su tutti e tre i livelli;
b. il superamento della trasformazione in un vero e proprio trascendimento dei conflitti, attraverso la collocazione della relazione conflittuale tra le parti ad un livello ulteriore e diverso, capace di perseguire soluzioni di mutuo beneficio;
c. il ricorso alle «3 C» che dovrebbero connotare le ipotesi di soluzione positiva in vista del trascendimento del conflitto: concretezza, creatività e costruttività.

Per essere insieme concreta (visualizzabile, non astratta), creativa (innovativa, non stereotipata) e costruttiva (positiva, quindi capace di riorganizzare il rapporto su nuove basi), la proposta di trasformazione del conflitto deve essere in grado di riconoscere le aspirazioni legittime di tutte le parti e di individuare un piano alternativo su cui queste possano essere soddisfatte in termini nuovi.
Il processo di trascendimento del conflitto consiste essenzialmente nel collocare il potenziale inespresso sul piano visibile: trascendere gli obiettivi delle parti ricercando gli obiettivi comuni sovra-ordinati, trasponendo il conflitto su un piano reciprocamente accettabile, al fine di pervenire a una risoluzione condivisa di “mutuo beneficio” capace di soddisfare tutte le parti in modo sostenibile.

Ciò implica di affrontare tutti i livelli (A, B, C) su cui si esercita la violenza: ad esempio, il modello di Galtung del «Triangolo del conflitto» (A, B, C) mostra gli elementi fondanti di un conflitto, in cui B (Behaviour) costituisce il piano manifesto, visibile, a livello di comportamenti delle parti; A (Attitude) e C (Contradiction) costituiscono il piano latente, non visibile, al livello A (atteggiamenti) delle radici culturali (il retroterra ideale e le culture profonde) e al livello C (contraddizioni) delle radici strutturali (il retroterra materiale e le contraddizioni sociali), che rappresentano le radici profonde del conflitto.
Alle 3 dimensioni della violenza corrispondono 3 approcci alla prevenzione della violenza:
▪ la prevenzione della violenza culturale attraverso la delegittimazione culturale della violenza (disarticolazione delle culture profonde, scardinamento delle immagini, dei pregiudizi, degli stereotipi che portano alla disumanizzazione e che conducono alla escalazione del conflitto, educazione alla pace e alla nonviolenza);
▪ la prevenzione della violenza strutturale attraverso l’abbattimento della limitazione all’accesso alle risorse e quindi, in particolare, il superamento delle condizioni di diseguaglianza e di deprivazione, che sono alla base degli squilibri che possono portare alla polarizzazione e quindi alla escalazione del conflitto;
▪ la prevenzione della violenza diretta attraverso la separazione dei contendenti, il disarmo delle fazioni, l’interposizione volta all’inibizione del ricorso alla violenza, misure tipiche delle operazioni legittime di interposizione nel conflitto basate sulla Carta delle Nazioni Unite (in definitiva, il peacekeeping delle Nazioni Unite).

5. La questione della pace: pace negativa e pace positiva

Vi è oramai un’ampia letteratura sulla gestione e la trasformazione dei conflitti cui le forze della pace, con il proprio impegno costruttivo, con l’individuazione di mediazioni e soluzioni creative, con la creazione di più avanzate condizioni politiche per il cessate-il-fuoco o il negoziato, hanno saputo dare un contributo concreto. Anche gli strumenti del lavoro di pace sono diventati più mirati, come dimostra, ad esempio, l’esperienza dei Corpi Civili di Pace, come strumenti di «azione civile, non-armata e nonviolenta, di operatori professionali e volontari che, come terze parti, su richiesta leggibile della società civile locale, sostengono gli attori locali nella prevenzione della violenza».
Anche nel caso del concetto di pace (dal latino pax, da cui pactum «patto», accordo) è opportuno sgomberare il campo da alcune semplificazioni e luoghi comuni. Nella ricerca per la pace, infatti, il concetto di pace non è più visto come un concetto statico, bensì come un concetto dinamico: la pace non indica cioè una condizione di armonia astratta acquisita una volta per tutte, né uno stato di quiescenza assoluta del conflitto; indica viceversa la realizzazione di una serie di condizioni, sia di carattere economico e sociale, sia di ordine politico e culturale, che, per un verso, riguardano l’assenza di violenza e di traumi diffusi all’interno della società, e, per l’altro, segnalano la presenza di condizioni di equilibrio (la riduzione delle diseguaglianze e delle polarizzazioni) e di armonia (l’affermazione della reciprocità e della cooperazione) nel sistema delle relazioni sociali.
In tal senso, può essere utile il ricorso alla cosiddetta «Formula della pace», anche questa elaborata da Johan Galtung, che, pur nella sua schematicità, ha tuttavia il merito di segnalare e visualizzare gli elementi essenziali del processo di costruzione della pace:


Come ha spiegato Nanni Salio, infatti, «secondo questa formula, Galtung individua quattro compiti fondamentali […]. Tutti richiedono di sviluppare delle capacità attraverso un processo di addestramento, di formazione e di educazione alla nonviolenza.

  1. Costruire equità: è fondamentale costruire forme di cooperazione per realizzare benefici mutui e uguali, o almeno non clamorosamente diseguali e peggiorativi […].
  2. Costruire armonia: […] condividere la gioia e la sofferenza degli altri […].
  3. Riconciliare i traumi del passato: ripulire il passato; riconoscere gli errori, augurandosi di non ripeterli; dialogo sul perché e il come; costruire un futuro.
  4. Risolvere i conflitti presenti: lavorare per superare sia le contraddizioni e le incompatibilità sia gli atteggiamenti e i comportamenti negativi».

Si tratta dunque, per completare la riflessione sul concetto di pace, di focalizzare l’attenzione sulla nozione di pace a partire dalla distinzione tra pace «negativa» (pace come assenza, in particolare, assenza di violenza, di conflitto violento, di guerra) e pace «positiva» (pace come presenza, affermazione di un contesto sociale caratterizzato dalla pienezza dei diritti umani nelle loro diverse generazioni, vale a dire come diritti civili e politici, diritti economico-sociali e culturali, diritti dei popoli e dell’ambiente, nonché dalla presenza di giustizia sociale, vale a dire capace di ridurre le diseguaglianze e le sperequazioni e di investire sulla partecipazione e l’inclusione). In una formula, anche questa mutuata dalla ricerca teorico-pratica di Galtung, «pace con diritti e con giustizia».

Una volta affermato, quindi, un orientamento alla «pace positiva», si tratta di individuare le condizioni necessarie ai fini della sua costruzione e quindi delineare la nozione di pace non come una condizione data, bensì come un processo da costruire che richiede una attiva partecipazione e che ha necessariamente bisogno della educazione alla pace e della realizzazione di una cultura di pace. In questo senso, si parla anche di peacebuilding, vale a dire di costruzione della pace a partire dalle sue pre-condizioni. Si muovono in tal senso anche diversi documenti ufficiali delle Nazioni Unite che hanno più volte sottolineato l’esigenza della realizzazione di una autentica «cultura della pace».

Nella risoluzione 53/243 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 13 settembre 1999 («Dichiarazione e Programma di Azione per una Cultura di Pace»), in particolare, viene evidenziato che «la pace non è solo l’assenza del conflitto, ma richiede anche un processo positivo, dinamico e partecipativo, in cui il dialogo sia incoraggiato e i conflitti siano risolti in uno spirito di reciproca comprensione e cooperazione». Inoltre definisce una cultura di pace come «un insieme di valori, atteggiamenti, tradizioni, condotte e stili di vita basati su: a) rispetto per la vita, cessazione della violenza e promozione della pratica della nonviolenza attraverso l’educazione, il dialogo e la cooperazione; b) pieno rispetto di principi di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica delle nazioni, e non intervento nelle questioni che rientrino essenzialmente nella giurisdizione interna di ogni Stato; c) pieno rispetto e promozione di tutti i diritti umani e le libertà
fondamentali; d) impegno alla composizione pacifica dei conflitti; e) soddisfacimento dei bisogni di sviluppo e di tutela dell’ecosistema per le generazioni presenti e future […]».
In definitiva, dunque, il ruolo dell’educazione alla pace resta decisivo. Come recita, infatti, la Carta dell’UNESCO, «dal momento che le guerre iniziano nella mente degli uomini è nella mente degli uomini che le difese della pace devono essere costruite».

Suggerimenti bibliografici

  • AA. VV., Trasformazione Nonviolenta dei Conflitti: Manuale per un corso di formazione dei formatori, Centre for Training and Networking in Nonviolent Action – KURVE Wustrow; PDCS, Slovacchia; CSDC, Italia; PATRIR, Romania; IFOR; 2006:
  • www.pacedifesa.org/2006/11/27/manuale-di-trasformazione-dei-conflitti.
  • Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, Conflitti e mediazione. Introduzione a una teoria generale, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
  • Johan Galtung, La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici. Il metodo Transcend, United Nation Disaster
  • Management Training Program; Centro Studi Sereno Regis, Torino, 2006.
  • Johan Galtung, Erika Degortes, Alla scoperta di Galtung. Johan illustra i fondamenti della sua opera di mediatore dei conflitti in un dialogo con Erika Degortes, Quaderni Satyagraha n. 31, Centro Gandhi Edizioni, Pisa, 2017.
  • Alberto L’Abate, L’arte della pace, Quaderni Satyagraha n. 26, Centro Gandhi Edizioni, Pisa, 2014.
  • Pat Patfoort, Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza, Pisa University Press, Pisa, 2012.
  • Nanni Salio, Una formula per la pedagogia della pace, Centro Studi Sereno Regis, Torino: serenoregis.org/wp-content/uploads/2020/05/cssr-Formula-della-pace.pdf.
  • Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
  • Dudley Weeks, Arno Truger, Giovanni Scotto, Cooperazione nel conflitto: un modello di formazione al peacekeeping e al peacebuilding civile, I Quaderni della Difesa Popolare Nonviolenta n. 28, Qualevita, Torre dei Nolfi, 1995.
    Statuto delle Nazioni Unite (Carta dell’ONU), 1945:
    unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Carta-delle-Nazioni-Unite-1945/1.
  • An Agenda for Peace. Preventive diplomacy, peacemaking and peacekeeping A/47/277 – (Agenda per la Pace), 1992: un.org/ruleoflaw/files/A_47_277.pdf.
  • Costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, le scienze e la cultura (Carta dell’UNESCO), 1945:
    unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Il-quadro-generale-dellUNESCO/35.
  • Risoluzione 53/243 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 13 settembre 1999 (Dichiarazione e Programma di Azione per una Cultura di Pace):
    unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Dichiarazione-sulla-cultura-di-pace-1999/38.
  • Kit formativo Educazione alla pace, diritti umani e cittadinanza del Centro diritti umani dell’Università di Padova con la Cattedra UNESCO «Diritti umani, democrazia e pace»: unipd-centrodirittiumani.it/it/attivita/Educazione-alla-pace-e-ai-diritti-umani/1358.
  • Kit didattico «Costruiamo una Pace» (Workable Peace Curriculum) del CBI (Consensus Building Institute): www.cbi.org/book/workable-peace-collection.

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