Dalla giustizia ambientale alla giustizia climatica
di Elena Camino, Centro studi Sereno Regis
DIRITTI E DOVERI DEI/DELLE CITTADINI/E
(In appendice al dossier sono presenti due schede di approfondimento: la prima si concentra sulla figura di Lois Marie Gibbs, la seconda sulla protesta di Warren County)
Non c’è pace senza giustizia: questo è uno degli slogan che accompagnano le manifestazioni e i presìdi organizzati da associazioni e gruppi della società civile per protestare contro i conflitti armati che in tante parti del mondo portano ancora oggi morte e devastazione. Ne è un esempio l’attuale guerra in corso tra Ucraina e Russia, in cui da molte parti di sollecitano i due Paesi in conflitto a imboccare la via della diplomazia e della legge.
Chi si appella alla giustizia ha in mente non solo la necessità di rispettare i diritti di tutti, e di assicurare una equa distribuzione delle risorse e delle opportunità, ma anche l’apparato di regole che – attraverso il dialogo e la mediazione – i governi e le istituzioni internazionali concordano di rispettare per superare le controversie che mettono in discussioni o interrompono le relazioni commerciali, culturali, sociali tra i Paesi.
L’importanza di darsi regole chiare e di rispettarle vale anche all’interno di ciascun Paese. In Italia sono numerosi gli articoli della Costituzione che stabiliscono compiti e attività con cui si esercita e si tutela la giustizia. L’Art. 101 afferma che ‘La giustizia è amministrata in nome del popolo, e che i giudici sono soggetti soltanto alla legge’. L’Art. 102 stabilisce che ‘La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia’.
L’amministrazione della giustizia è uno dei ruoli più importanti della Repubblica: infatti vi è tra i suoi compiti (articolo
3) l’impegno a garantire a ogni cittadino/a il pieno sviluppo delle sue potenzialità e l’effettiva partecipazione
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che ne limitano la libertà e l’eguaglianza.
La nostra Costituzione dunque riconosce l’uguaglianza tra tutte le persone, e si impegna a renderla effettiva
attraverso l’applicazione delle sue leggi. Cittadine e cittadini hanno diritto di ricevere protezione e tutela, e a loro volta hanno il dovere di contribuire al raggiungimento di una condizione simile per tutt*. L’obiettivo condiviso è una società di persone uguali e libere.
LA TUTELA DEGLI ECOSISTEMI
Nella Costituzione, all’articolo 9 è stata aggiunta di recente una frase: il nostro Paese, oltre a tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, ‘tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. […]’.
Questa aggiunta e questa precisazione si sono rese necessarie per introdurre – anche nel testo della nostra Costituzione – un concetto nato da una consapevolezza che è venuta maturando negli ultimi 50-60 anni: il riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dai sistemi naturali per mantenere la vita e il benessere delle persone e delle altre forme di vita che – insieme all’umanità – abitano il Pianeta Terra. Pur essendo espressa con una prospettiva antropocentrica, questa legge rappresenta un passo importante verso la presa di coscienza della totale dipendenza della sopravvivenza umana dal ‘ben-essere’ della rete di sistemi viventi che ormai da più di 4 miliardi di anni si è sviluppata sulla Terra, evolvendo senza interruzione in una straordinaria diversità di forme, proprietà e funzioni.
Possiamo dunque affermare che, oltre a garantire i diritti di ogni persona (al di là delle differenze di genere, lingua, razza, condizioni economiche, opinioni politiche ecc.), in Italia è diventato obbligo di legge rispettare e proteggere anche i ‘luoghi’ in cui viviamo: che non sono più da considerare come contenitori passivi, inerti da cui prelevare risorse e buttare rifiuti, ma come elementi vivi, reattivi, strettamente interconnessi e interdipendenti attraverso reti che si estendono ben al di là dello spazio circostante. Un Paese giusto amministra e protegge l’ambiente naturale, e assicura che ogni cittadino ne possa godere secondo un principio di equità.
L’obbligo di ‘tutelare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi’ pone interrogativi nuovi e carica di nuove responsabilità. I confini entro i quali si manifestano le conseguenze ambientali delle nostre azioni, personali e collettive, si estendono ben al di là del territorio nazionale. La drammatica storia degli abusi compiuti anche lontano da noi, in altri paesi e continenti, nei confronti di comunità umane che sono state private (perché distrutte, avvelenate, saccheggiate) delle risorse naturali indispensabili alla loro vita (cibo, salute, casa), ci riguarda infatti direttamente. Questi abusi hanno alimentato conflitti locali ovunque nel mondo, che con il passare dei decenni sono stati individuati e ‘classificati’ come conflitti che riguardano la ‘giustizia ambientale’.
MOVIMENTI PER LA GIUSTIZIA AMBIENTALE – L’AMBIENTALISMO DEI POVERI
Dalla metà del ‘900 si manifestarono – in un rapido crescendo – situazioni di conflitto connesse all’estrazione di risorse naturali, al loro trasporto e trasformazione, fino allo smaltimento. Si estesero sempre più le frontiere della ricerca di risorse non rinnovabili – materie prime (come bauxite, rame, uranio) ed energia (legname, petrolio, gas) – sottraendole alle comunità locali e impoverendo il pianeta. Anche le risorse rinnovabili (come le foreste, o le riserve di pesca) sono state progressivamente danneggiate, per l’uso eccessivo, per inquinamenti, per trasformazioni irreversibili. Questi conflitti hanno visto per lo più affermarsi le ragioni dei più forti a scapito di gruppi sociali che si trovavano in posizioni svantaggiate per appartenenza etnica, classe, genere, condizioni economiche. Negli anni ’80 del 1900 questi conflitti erano percepiti soprattutto nelle aree urbane, in termini di persistenti ingiustizie nei confronti della ‘gente di colore’ negli Stati Uniti: in particolare la presenza di discariche di materiali tossici vicini alle abitazioni di comunità nere diede origine a un movimento sociale per la giustizia ambientale.
Due esempi significativi del nascere dell’idea di ‘Giustizia ambientale’ sono illustrati nelle schede presenti in appendice, che qui anticipiamo:
‘Lois Gibbs contro la discarica – 1978’ illustra la lunga battaglia legale condotta negli Stati Uniti da una donna, madre di un bambino di 8 anni, da quando scoprì che la scuola frequentata da suo figlio era stata costruita sui resti di una discarica di rifiuti tossici. La denuncia di Lois diede avvio a una lotta collettiva che ottenne significativi finanziamenti per monitorare i siti inquinati, e impose al governo nuove leggi per avviare bonifiche e proteggere l’ambiente.
‘La protesta di Warren County – 1982’. Venne aperta una discarica di rifiuti tossici all’interno del quartiere di Alton, nel Nord Carolina: preoccupati per i rischi di inquinamento delle riserve di acqua potabile i residenti bloccarono i camion diretti al sito, sdraiandosi per terra. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti vennero arrestate delle persone che manifestavano contro una discarica.
Intanto, nelle zone rurali e nelle aree abitate da comunità indigene diventava sempre più vistoso il fenomeno dello ‘spossessamento’, cioè della sottrazione delle risorse (terra, fiumi, foreste) dalle quali dipendeva la sopravvivenza di queste popolazioni. Le forme di resistenza che via via si diffondevano contro questa espropriazione presero il nome di ambientalismo dei poveri. Gli esempi di queste forme di violenza si moltiplicarono rapidamente, interessando numerose situazioni in Africa, Asia e America Latina.
La causa comune di queste diverse forme di ingiustizia e di sofferenza è ormai ben riconosciuta: esse dipendevano dall’insostenibile accelerazione del ‘metabolismo industriale’, cioè del flusso di materiali e di energia attraverso i confini dei paesi ricchi, che continuava a crescere a vantaggio di un numero sempre più ridotto di beneficiari, e a scapito della maggioranza dell’umanità.
La somiglianza delle situazioni di ingiustizia – nei confronti dei poveri nelle città e delle comunità nelle aree rurali e indigene – è diventata evidente negli anni ’80 e ’90, dopo la morte di Chico Mendez nel 1988, che si opponeva alla deforestazione in Brasile, e l’uccisione di Ken Saro-Wiwa e dei suoi compagni dell’etnia Ogoni che denunciavano gli inquinamenti causati dall’estrazione di petrolio nel delta del Niger da parte della Shell, nel 1995. E il fenomeno del ‘furto della terra’ (il land grabbing) è diventato sempre più vistoso in tutti i continenti.
I DIFENSORI AMBIENTALI, DA VITTIME AD ACCUSATI
Il termine “difensore dei diritti umani” si riferisce a donne e uomini che, individualmente o in associazione con altri/e, agiscono per la promozione e la protezione dei diritti umani universalmente riconosciuti e delle libertà fondamentali. Sempre più spesso essi devono far fronte a processi di criminalizzazione, abusi, molestie, arresti e detenzioni arbitrarie, minacce, attacchi violenti che mettono in pericolo la loro vita. Questo accade perché essi difendono dei diritti umani connessi alla tutela del diritto a vivere in un ambiente sano, e alla protezione delle risorse naturali e dei mezzi di sostentamento delle comunità minacciate. Si tratta di giornalisti, avvocati, rappresentanti di ONG e gli stessi leader comunitari. I difensori dei diritti alla terra e all’ambiente vengono inoltre colpiti da accuse infondate quando fanno denunce contro le industrie estrattive o contro l’espansione delle piantagioni monocolturali, o quando rivendicano il loro diritto ad essere consultati prima che un governo assegni una concessione per l’esplorazione o estrazione di risorse naturali. La crescita economica ha inoltre innescato un aumento nella domanda di energia, e svariati mega-progetti si stanno sviluppando in tutto il mondo. Tali progetti, presentati da grandi imprese multinazionali private, sono spesso sostenuti dagli Stati e da potenti attori finanziari, e considerano i difensori dei diritti come ‘antagonisti’, anti-governativi’, ‘contrari al progresso’, ‘terroristi… In simili situazioni le tensioni tra le popolazioni e gli operatori economici si esasperano, e l’amministrazione della giustizia diventa problematica.
Mongabay, un’Associazione impegnata nella conservazione e nella difesa della natura, è molto attenta a documentare i conflitti in cui sono coinvolti i difensori ambientali. In un articolo pubblicato ad aprile 2022 sul suo sito, è riportata la notizia (tratta da un’analisi di Front Line Defenders e Human Rights Defenders Memorial) che nel 2021 sono stati registrati almeno 358 omicidi di attivisti per i diritti umani a livello globale. Di quel totale, quasi il 60% erano difensori della terra, dell’ambiente o dei diritti degli indigeni. I paesi con il più alto numero di vittime sono Colombia, Messico e Brasile. I responsabili di queste associazioni affermano che la cifra è probabilmente molto più alta, poiché gli attacchi ai difensori della terra e dell’ambiente in Africa spesso non vengono denunciati.
DILAGANO I CONFLITTI AMBIENTALI
A partire dal 2010, con il sostegno finanziario dell’Unione Europea, è stato sviluppato un progetto di ricerca allo scopo di creare un inventario dei conflitti sociali in corso su problematiche ambientali: l’Environmental Justice Atlas (EJAtlas) poi proseguito come ’Environmental Justice Project. Grazie all’impegno di studiosi, attivisti e gruppi locali coordinati dal Prof. Joan Martínez-Alier dell’ Institute of Environmental Science and Technology (Università Autonoma di Barcellona) sono stati raccolti, categorizzati e documentati ormai 3.660 ‘studi di caso’ di conflitti che riguardano un grande varietà di situazioni: dalle costruzioni di centrali nucleari all’estrazione di minerali da miniere, dalle discariche alle mega- dighe, dall’estrazione di combustibili fossili alla sottrazione dell’acqua pubblica e alla costruzione di autostrade, aeroporti, linee ferroviarie. Sono presi in esame anche casi di inquinamento industriale, deforestazione, furto di terre, sovrasfruttamento di aree marine. Grazie a questi studi, basati su ricostruzioni storiche, ricerche in campo, testimonianze dirette, il pubblico ha a disposizione una documentazione ampia e accurata delle manifestazioni di resistenza dal basso presenti – talvolta concluse, spesso ancora in corso – per la difesa dei diritti di comunità, popolazioni, gruppi sociali a vivere in ambienti naturali sani e produttivi, a vedere cioè rispettate condizioni di giustizia ambientale globale.
Il quadro che emerge da questo vasto studio documenta in modo estremamente ampio e dettagliato il ruolo cruciale svolto dalle migliaia di comunità nel mondo che hanno finora cercato di opporsi ai molteplici processi di distruzione della vitalità del nostro pianeta – dalle foreste ai fiumi, dalla fertilità del suolo alla salute degli ambienti marini. A queste forme di saccheggio (attuate per lo più con metodi violenti e brutali, dagli omicidi impuniti agli interventi armati di militari e mercenari), i difensori dell’ambiente oppongono una varietà una strategie: manifestazioni di piazza, denunce, boicottaggi, occupazioni di suolo. I difensori ambientali sono spesso membri di gruppi vulnerabili che mettono in atto forme di protesta nonviolente.
UNA CRESCENTE SINERGIA TRA NONVIOLENZA SOCIALE E AMBIENTALE
Da un’analisi approfondita di 2743 dei casi documentati nell’Atlante dei conflitti ambientali emerge che le mobilitazioni dal basso per usi più sostenibili e socialmente giusti dell’ambiente coinvolgono ormai tutti i gruppi di reddito, testimoniando l’esistenza globale di varie forme di ambientalismo di base come forza promettente per la sostenibilità.
Numerose associazioni internazionali da molti anni denunciano le manifestazioni di violenza di cui sono vittime i difensori dell’ambiente. Una di queste associazioni – Global Witness – è da anni impegnata a smascherare le corruzioni e gli abusi compiuti da imprese e settori finanziari contro i diritti umani e l’ambiente. Inoltre è particolarmente attenta a denunciare, ogni anno, i delitti commessi nei confronti di chi cerca di difendere gli ecosistemi naturali e si oppone a progetti distruttivi per le comunità e per l’ambiente. Dal Report annuale di Global Witness del 2020 risulta che nell’anno precedente furono 212 i difensori ambientali assassinati. Un’altra Associazione – Front Line Defenders – documenta l’uccisione, nel 2021, di 358 persone che erano impegnate nella difesa dei diritti umani: di queste, quasi il 60% erano coinvolte in iniziative di difesa ambientale, e più di un quarto apparteneva a comunità indigene. Altre Associazioni, più note al pubblico italiano come Greenpeace, WWF, Amnesty International, sempre più associano problematiche ambientali e diritti umani, a dimostrazione dell’interconnessione tra tutela ‘umana’ e tutela della ‘natura’. Secondo i dati forniti dall’Atlante dei conflitti ambientali, a livello globale nell’11% dei casi hanno contribuito a fermare progetti distruttivi per l’ambiente e socialmente conflittuali, difendendo l’ambiente e i mezzi di sussistenza. Tuttavia, i difensori affrontano a livello globale alti tassi di criminalizzazione (20% dei casi), violenza fisica (18%) e omicidi (13%), che aumentano significativamente là dove sono coinvolte comunità indigene.
CONTRO VARIE FORME DI VIOLENZA, DIVERSE MODALITA’ DI RESISTENZA NONVIOLENTA
Dai paragrafi precedenti emerge che dalla seconda metà del ‘900 si manifestarono sempre più numerose, diverse e diffuse circostanze in cui si verificarono casi di violazione dei diritti di persone, collettività, comunità a vivere in ambienti sani, accoglienti e in grado di soddisfare le necessità di sussistenza. Nella maggior parte dei casi le proteste sono state soffocate, e le connivenze tra i responsabili degli abusi e i rappresentanti del potere (amministrativo, militare, politico) hanno rallentato o ostacolato l’elaborazione di nuovi strumenti giuridici a tutela della giustizia ambientale. Solo l’impegno e il coraggio di molt* RESISTENTI hanno permesso di portare alla luce abusi e sopraffazioni, e di OPPORRE a queste forme di violenza gli strumenti del diritto e delle leggi. Attualmente, alle forme più evidenti e conosciute di violenza – quella diretta (la guerra) e quella strutturale (uso improprio del potere) esercitate dai detentori di poteri forti (governi, imprese, multinazionali, spesso anche realtà mafiose e criminali) si affiancano sempre più altre forme di violenza, che sono state definite come manifestazioni di violenza ‘lenta’ (Nixon, 2013), in quanto i loro effetti si manifestano spesso ritardati nel tempo e dilatati nello spazio. La progressiva deforestazione di vaste regioni, l’avvelenamento di falde acquifere profonde, l’effetto tardivo dei pesticidi, le forme patologiche che colpiscono persone, animali, piante anni o decenni dopo gli sversamenti di sostanze tossiche… hanno reso difficile, e spesso impedito di individuare i colpevoli, e soprattutto di sottoporli a processo e imporre forme di risarcimento. In altre parole, sono forme di violenza che spesso sfuggono alla giustizia. Si assiste però oggi a un progressivo, anche se lento e incerto, cambiamento di mentalità, accompagnato dall’introduzione di leggi volte a difendere i soggetti danneggiati e a punire gli autori degli abusi. Una delle forme più recenti di ‘violenza lenta’ è la produzione di sostanze in grado di alterare la stabilità climatica nel nostro pianeta, come l’emissione di gas con effetto serra.
OLTRE I LIMITI BIOFISICI … E SOCIALI
Le prime avvisaglie di una trasformazione dinamica in atto nel nostro pianeta sono state segnalate quando ormai erano avviati da tempo dei processi globali che la strumentazione scientifica in corso, e soprattutto la nostra immaginazione, non erano ancora in grado di cogliere né di interpretare. Picchi di calore improvvisi? Incendi persistenti? ‘Sbiancamento’ delle barriere coralline? Uragani più violenti e frequenti? Migrazioni inconsuete di cavallette? Per decenni si sono registrati eventi ‘anomali’ in tutto il mondo, ed è occorso molto tempo prima che ci si rendesse conto che molti di questi eventi potevano trovare una spiegazione se, invece di essere riferiti ad una scala spazio-temporale locale o regionale, venivano interpretati come tasselli di fenomeni ed eventi che si stavano manifestando ad una scala globale. E’ nata così la scienza del pianeta Terra, e si sono sviluppati anche i primi studi quantitativi dei processi metabolici in atto: grazie alle misure dei flussi di materiali e di energia mobilitati dalle attività umane gli scienziati hanno fornito indicazioni ai decisori politici, economici, sociali per controllare e ridimensionare tali flussi.
Da alcuni decenni ormai numerosi gruppi di studiosi segnalano che le attività umane stanno superando dei ‘limiti’ biofisici che i processi vitali del pianeta non sono in grado di gestire. E’ del 2009 un grafico diventato famoso, che illustra i ‘confini’ biofisici del nostro pianeta: i limiti cioè, superati i quali l’insieme delle attività che la natura incessantemente svolge per mantenere le condizioni di vita sulla Terra adeguate alle esigenze dei suoi abitanti non è più sufficiente a conservare l’equilibrio (Rockstrom et al.) Molte specie si estinguono, si riduce la disponibilità di acqua potabile, si accumulano sostanze chimiche e gas che i processi naturali non riescono a smaltire… l’intero pianeta si sta trasformando. La storia geologica della Terra è entrata in un nuovo periodo, l’Antropocene, caratterizzato dalle tracce lasciate dalla presenza umana.
All’allerta segnalata per i confini biofisici che non si dovrebbero superare – per non alterare irreversibilmente le condizioni di abitabilità per l’umanità – si sono presto aggiunte segnalazioni analoghe che riguardano le relazioni umane tra le varie comunità. La studiosa Kate Raworth nel 2017, riferendosi esplicitamente ai confini biofisici di Rockstrom et al, ha proposto di completare lo schema proponendo un modello a ‘ciambella’, in cui i limiti fisici imposti dal pianeta verso l’esterno sono completati dai limiti interni determinati dai vincoli sociali. Nelle sue parole: “La sfida per l’umanità del XXI secolo è di soddisfare i bisogni di tutti tenendo conto delle possibilità del pianeta. In altre parole, occorre assicurare che nessuno sia privato dei beni essenziali (cibo, casa, salute, libertà di parola), e al tempo stesso non si devono superare i limiti dei sistemi globali di sostegno alla vita che la Terra può fornire (clima stabile, suolo fertile, ecc.)”. L’interno della ‘ciambella’, compreso tra i confini sociali e planetari, si trova uno spazio ambientalmente sicuro e socialmente giusto in cui l’umanità può prosperare.
UN NUOVO SOGGETTO DI DIRITTO?
Mentre si moltiplicano i dati sperimentali e crescono gli allarmi per le conseguenze imprevedibili dell’impatto umano globale, lentamente emerge la consapevolezza dell’esistenza di un nuovo ‘soggetto’: nel 1972 Lo scienziato James Lovelock (1972), e con lui via via molti altri studiosi, suggerì che gli organismi viventi sul pianeta interagissero con l’ambiente inorganico circostante, mantenendo stabili, grazie a meccanismi di autoregolazione, le condizioni climatiche e biochimiche che rendono possibile la vita sulla Terra. E aveva chiamato Gaia questo sistema.
In realtà Gaia sta dimostrando di essere ben più che un ‘sistema di autoregolazione’… è una realtà dinamica in trasformazione. I bersagli di inquinamenti, degrado, distruzione di ecosistemi non sono più solo persone e comunità umane territorialmente separate, ma la Terra stessa nella sua globalità. Il riconoscimento di Gaia come soggetto attivo e in trasformazione ci proietta concettualmente in una nuova dimensione. Noi umani siamo una componente di una rete incredibilmente fitta e complessa che ci comprende e ci attraversa, collegandoci in modo inestricabile con altri viventi, altre creature ‘Terrestri’1, con cui condividiamo esperienze e storie. E questa è la nostra unica casa. Dato che abbiamo capito che stiamo perturbando in modo imprevisto le condizioni globali di equilibrio che fino ad ora si sono dimostrate favorevoli alla nostra sopravvivenza come specie, ci conviene prudentemente ridurre il nostro impatto.
In questa situazione è improprio pensare alla Terra come vittima che possiamo difendere e magari salvare: il nostro pianeta ha risorse di creatività e opportunità di evoluzione che noi umani non riusciamo neppure a immaginare, e tanto meno a governare. Quello che è invece opportuno fare è in primo luogo considerarla come soggetto di diritto e rispettarla, recuperando il senso di meraviglia, gratitudine e reverenza per i doni che ci elargisce, e che ci consentono giorno dopo giorno di vivere. Ecco il senso più profondo che assume la frase inserita nell’articolo 9 della Costituzione: ‘tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. […]’.
LA QUANTIFICAZIONE DELLE RESPONSABILITA’
Un atteggiamento di umiltà e prudenza, oltre che aiutarci a rimediare – se e per quanto è possibile – ai danni che abbiamo inflitto alle fonti stesse della nostra sussistenza, può consentirci di fare qualche passo in direzione di una presa di coscienza delle ingiustizie compiute nei confronti di miliardi di persone (e di innumerevoli altri viventi) che a
1 Earthlings, secondo una bella espressione dello studioso Bruno Latour
causa dell’ingordigia di pochi sono state private dei beni primari: l’aria pura, l’acqua potabile, il suolo fertile, i mari pescosi…
La consapevolezza delle disparità crescenti nell’utilizzo di ‘natura’ da parte delle diverse comunità umane risale a molti decenni fa: con il concetto di ‘impronta ecologica’ introdotto da Wackernagel e Rees2, nel 1996, si riconosceva già l’esistenza di differenti impatti nell’utilizzo di ‘natura’ (risorse naturali e capacità di rigenerarle): un importante gruppo di ricerca coordinato da scienziati di varie competenze ha prodotto negli ultimi tempi accurati studi sugli impatti umani, individuando e calcolando il carico ambientale di diversi soggetti (individuali, collettivi, nazionali ecc.), di specifiche attività (ad es viaggi aerei, conflitti armati), di filiere (l’estrazione di un minerale, la coltivazione di un prodotto alimentare…), persino di oggetti (un’automobile, un telefono cellulare…).
Ma è mancata a lungo una quantificazione delle responsabilità di tali squilibri, e soprattutto non sono state messe in atto delle leggi, nazionali e internazionali, in grado di contrastare le crescenti ingiustizie ambientali e sociali provocate da tali squilibri.
E’ molto recente la pubblicazione di alcuni dati scientifici che documentano in modo quantitativo il grado di appropriazione di beni naturali da parte delle singole nazioni. E’ solo di pochi mesi fa un articolo comparso sulla rivista Lancet Planet Health3 con un titolo molto significativo:4 “Responsabilità nazionali per la ripartizione ecologica: una valutazione equa delle quote di utilizzo delle risorse, 1970–2017”.
Secondo gli Autori, gli impatti umani sui processi del sistema-Terra stanno oltrepassando vari limiti planetari, provocando una crisi di degrado ecologico; questa crisi è causata in gran parte dall’estrazione globale di risorse, che è aumentata drammaticamente nell’ultimo mezzo secolo. Le nazioni ad alto reddito sono responsabili del 74% di questo utilizzo eccessivo, con in testa alla lista gli USA (27%) e a seguire l’Unione Europea (25%). La Cina è responsabile del 15%5, e tutti gli altri Paesi insieme del Sud globale (l’intera Africa, il Medio Oriente, il resto dell’Asia) solo dell’8%. Il superamento dei limiti biofisici da parte delle nazioni ad alto reddito dipende in massima parte dall’uso di materiali abiotici (minerali, metalli, materiali da costruzione); negli altri si consumano in eccesso le biomasse. Dunque i principali responsabili dell’attuale degrado ecologico globale sono i paesi più ricchi, che dovrebbero ridurre urgentemente il loro uso delle risorse a livelli equi e sostenibili, e pagare – secondo giustizia – i danni provocati con le indebite appropriazioni.
Tuttavia, come testimoniano vari Autori e Autrici in un recente libro6, la situazione sta evolvendo in senso opposto: solo aumenta il ritmo di prelievi indebiti e di inquinamenti nelle aree più povere, ma stiamo assistendo a un crescendo di violenze associate all’estrazione e al saccheggio di risorse naturali, e alla brutale uccisione di attivisti e difensori dell’ambiente persino in parchi e aree protette. Gli esiti violenti delle scelte politiche ed economiche imposte dai decisori politici sono conseguenze di iniziative spesso spacciate come ‘verdi’ e ‘sostenibili’, ma ormai non è difficile smascherare questa narrazione menzognera. Il pubblico, la società civile ha ormai i mezzi per sapere come stanno le cose, e grazie a comportamenti consapevoli e a scelte responsabili nella vita personale e collettiva (manifestazioni, boicottaggi, denunce) potrebbe contribuire in modo importante alla lotta nonviolenta contro i conflitti armati, e a difesa delle comunità indifese e dei loro spazi di vita.
LA GIUSTIZIA CLIMATICA
Il termine giustizia climatica appare per la prima volta nel 1999 nella pubblicazione di una Associazione, CorpWatch, che richiama l’attenzione sulle responsabilità degli inquinamenti prodotti dai paesi industrializzati a svantaggio delle nazioni e delle comunità che le subiscono gli effetti. Poi, in occasione della Sesta Conferenza delle Parti dell’ONU sul cambiamento climatico (COP 6) del 2000 che per la prima volta il cambiamento climatico viene legato al concetto di “giustizia” nel dibattito internazionale. Nel frattempo in Olanda si era aperto il Climate Justice Summit, primo incontro internazionale dedicato alla Giustizia climatica promosso da una serie di organizzazioni sociali e network internazionali. Proprio nell’ambito di questo “controvertice” fu formulata la Call for Climate Justice che definì il cambiamento climatico una “questione di diritti”: non si trattava solo più di affrontare occasionali emergenze ambientali – alluvioni, incendi, periodi di siccità – ma di collegare quei fenomeni ai principi di equità e giustizia.
2 Mathis Wackernagel e William Rees, Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth (La nostra impronta ecologica: ridurre l’impatto umano sulla Terra), pubblicato nel 1996.
3 The Lancet Planetary Health Volume 6, Issue 4, April 2022, Pages e342-e349. https://doi.org/10.1016/S2542-5196(22)00044-4
4 National responsibility for ecological breakdown: a fair-shares assessment of resource use, 1970–2017.
5 I dati si fermano al 2017, e soprattutto per la Cina andrebbero aggiornati.
6 Our Extractive Age. Expressions of Violence and Resistance Judith Shapiro & John-Andrew McNeish, Routledge 2021
Nel 2019 il Relatore speciale ONU su povertà estrema, Philip Alston, ha parlato per la prima volta di “apartheid climatico“, denunciando che le popolazioni più povere saranno le più duramente colpite dal global warming e che sui Paesi in via di sviluppo peserà il 75% dei costi dell’aumento delle temperature, della crisi alimentare legata alla siccità e ai disastri climatici, delle malattie e dei conflitti che deriveranno dagli stravolgimenti climatici: tutto ciò nonostante che la metà più povera della popolazione mondiale sia responsabile soltanto del 10% delle emissioni clima alteranti.
Secondo i principi condivisi dalle principali associazioni ambientaliste in un documento firmato nel 2020 – The Bali Principles of Climate Justice – è responsabilità di chi contribuisce in maniera maggiore al riscaldamento globale intervenire per fermare questa crisi. Attualmente il termine di giustizia climatica chiama in causa non solo nazioni e governi, ma anche le grandi imprese multinazionali, che continuano ad accumulare profitti con l’estrazione e la vendita di combustibili fossili. D’altra parte, si va estendendo la varietà dei soggetti che avrebbero diritto di ricevere protezione e di ottenere giustizia per i danni subiti o che subiranno: le popolazioni indigene, le comunità più povere, le future generazioni.
GUERRE TRA UMANI, GUERRA ALLA TERRA
Il pacifismo, e ancor più le molteplici forme di resistenza nonviolenta che sono state messe in atto da quando è iniziato il conflitto armato tra Ucraina e Russia, hanno assunto come elemento fondamentale della loro posizione il rifiuto della lotta armata, quindi anche il rifiuto delle forniture di armi, soldati e materiale bellico da parte di paesi non direttamente belligeranti. Tra i principali motivi che sorreggono la posizione di rifiuto della lotta armata, oltre allo strazio provocato da tante morti e sofferenze, vi è da un lato la consapevolezza che l’aumento drammatico di sentimenti di risentimento e di odio tra gruppi umani renderà ancora più difficile e doloroso ogni tentativo di riportare le relazioni umane verso atteggiamenti costruttivi basati su reciproco rispetto. Dall’altro cresce la preoccupazione per il crescente squilibrio tra gli obiettivi di riduzione dell’emissione di gas con effetto serra e l’improvviso e rapido incremento di emissioni di gas serra causato – sia direttamente che indirettamente – dalle attività belliche.
Le promesse di riduzione delle emissioni (assicurate fino a pochi mesi fa da governi e decisori politici) sono non solo non mantenute, ma contraddette da nuovi e imprevisti scambi commerciali di combustibili fossili, da nuovi progetti di estrazioni di petrolio e gas, da interessi economici e finanziari, oltre che dallo sfrecciare di mezzi militari (aerei, navi, cingolati…) alimentati da combustibili fossili.
Mentre l’attenzione dei poteri forti, dei militari e dei media è concentrata sulle dinamiche del conflitto armato e sulle narrative degli scenari bellici, lo scacchiere su cui muovono gli schieramenti – le pianure, le coste, l’atmosfera stessa – sta cambiando! La prospettiva di ripresa economica dopo il COVID, e il moltiplicarsi dei soggetti coinvolti del conflitto, hanno offerto una straordinaria occasione alle compagnie petrolifere e ai loro azionisti, che hanno già messo a punto piani di espansione per nuove estrazioni e nuovi gasdotti.
La temperatura del nostro pianeta – anche grazie alle emissioni di gas serra prodotte dalla guerra – continua a crescere, portandoci verso un cambiamento globale irreversibile, probabilmente disastroso per l’umanità.
COME FERMARE L’INGIUSTIZIA CLIMATICA?
Gli scienziati di tutto il mondo sono concordi nel sostenere che la situazione dell’umanità nel nostro pianeta è diventata molto problematica. Gli esperti già dal 2011 sostenevano che almeno la metà delle riserve di combustibili fossili ancora disponibili non dovrebbe essere estratta né consumata, se non vuole andare incontro a un aumento catastrofico della temperatura. Un’ indagine eseguita nel 2015 segnalava che metà delle riserve conosciute di petrolio e di gas, e l’80% del carbone, dovrebbero restare sotto terra.
Nell’Agosto 2021 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha reagito in modo molto esplicito alla pubblicazione del più recente Panel Intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), il documento che esprime la posizione mondiale più autorevole sulla scienza del clima. Secondo l’IPCC le emissioni di carbonio devono ridursi alla metà entro il 2030 se si vuole salvaguardare la speranza di un futuro vivibile per l’umanità. Di fronte a questi dati – sostiene il Segretario dell’ONU – “investire in nuove infrastrutture destinate ai combustibili fossili è una follia morale ed economica”. Attualmente però le maggiori imprese multinazionali del petrolio e del gas stanno pianificando decine di vasti progetti che rischiano di mandare in frantumi l’obiettivo climatico di contenere l’aumento della temperatura globale entro un grado e mezzo (1,5 °C) come stabilito dai più recenti accordi internazionali. Se i governi non agiranno, queste aziende continueranno a incassare dividendi! Un lungo e molto documentato articolo da poco pubblicato dal quotidiano The Guardian mette chiaramente in evidenza che le maggiori imprese petrolifere
stanno silenziosamente predisponendo delle ‘bombe di carbonio’ rendendo vani gli ultimi tentativi “per assicurare un futuro accettabile ed equo per tutti”.
“Solo la mentalità colonialista dei leader politici dei paesi ricchi può ritenere che gli interessi e i profitti derivanti dal business dei combustibili fossili siano più importanti delle vite di milioni di persone che subirebbero le peggiori conseguenze dei cambiamenti climatici: persone che sono in grande prevalenza comunità nere e povere.
È ancora il Segretario dell’ONU a parlare: “Il mondo è in corsa contro il tempo. È ora di porre fine ai sussidi ai combustibili fossili e fermare l’espansione dell’esplorazione di petrolio e gas“. Riflettendo sulla guerra in Ucraina, Guterrez ha affermato: “I paesi potrebbero essere così travolti dall’improvviso divario di approvvigionamento di combustibili fossili da trascurare o mettere in ginocchio le politiche per ridurne l’uso. Questa è una follia. La dipendenza dai combustibili fossili è una distruzione reciprocamente assicurata”.
Ma chi ha l’autorevolezza, e si assume la responsabilità di difendere la giustizia climatica?
IL DESTINO DELLA TERRA – IL DESTINO DELL’UMANITA’
The Fate of the Earth è un libro del 1982 scritto da Jonathan Schell. Secondo l’Autore, la descrizione delle possibili conseguenze di una guerra nucleare avrebbe dovuto spingere anche le persone più riluttanti a confrontarsi con l’impensabile: la distruzione dell’umanità e forse della vita sulla Terra. Questo libro fu adottato dal movimento per il disarmo nucleare. Ora assistiamo a una doppia minaccia: oltre a quella nucleare – che si è drammaticamente ripresentata – abbiamo di fronte a noi la prospettiva di una rapida trasformazione delle caratteristiche dell’intero pianeta. Nel volgere di pochi decenni la Terra potrà diventare inabitabile per l’umanità. In questa situazione, perciò, lo scontro armato in corso tra le potenze mondiali, nella sua violenza e stupidità, lascia sbalordit*. Ma insieme presenta con estrema chiarezza quale sia l’unica via da seguire: quella della difesa collettiva, globale, non armata e nonviolenta di tutti i popoli per togliere il potere di decidere e di agire a un manipolo di potenti irresponsabili, e processarli in nome della giustizia: climatica e sociale. Questa difesa collettiva non può prescindere – tuttavia – dall’impegnare ciascuna e ciascuno a ‘fare la sua parte’: fare pace con sé, con l’umanità, con la natura, ridurre il proprio impatto sul pianeta, e agire in modo nonviolento, umile e solidale per il bene comune. Ma anche qui sorge una domanda: come diventare – tutte e tutti – difensori nonviolenti dei diritti umani e ambientali?
PAROLE CHIAVE
Tutela degli ecosistemi. Ambientalismo dei poveri. Violenza ‘lenta’. Conflitti ambientali. Resistenza nonviolenta. Impatto umano e giustizia ambientale. Difensori dell’ambiente. Squilibri ambientali e responsabilità. Le trasformazioni di Gaia. Giustizia climatica.
SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI
CDCA – Perché i conflitti ambientali. http://cdca.it/perche-i-conflitti-ambientali/
EJAtlas – Global Atlas of Environmental Justice https://ejatlas.org/
Global witness – Land and environmental defenders. https://www.globalwitness.org/en/campaigns/environmental-activists/
International Climate Justice Network – Bali Principles of Climate Justice (2002)
Latour Bruno – La sfida di Gaia Il nuovo regime climatico. Meltemi 2020. http://www.bruno- latour.fr/fr/node/871.html
Martinez-Alier Joan – L’ambientalismo dei poveri
Nixon Rob – Slow Violence and the Environmentalism of the Poor. Harvard University Press, 2013. https://www.hup.harvard.edu/catalog.php?isbn=9780674072343
Schaller Zélie – Per il clima ma in modo equo. Edizione: 01/2022. https://www.eine-welt.ch/it/2022/numero- 1/dossier-per-il-clima-ma-in-modo-equo
Tribunale permanente dei Popoli – Simona Fraudatario, Gianni Tognoni (Curatori) – Diritti dei popoli e disuguaglianze globali. I 40 anni del Tribunale Permanente dei Popoli. Editore Altreconomia, 2020.
Dalla GIUSTIZIA ambientale alla GIUSTIZIA CLIMATICA
Una battaglia di cittadini
Lois Marie Gibbs (nata nel 1951) è diventata famosa quando, nel 1978, scoprì che la scuola elementare frequentata da suo figlio di sette anni era stata costruita su un discarica di sostanze tossiche. La discarica, dismessa da un imprenditore che l’aveva usata a fine ‘800, era stata poi utilizzata da una industria chimica, la Hooker Chemical Corporation. Quando la discarica fu completamente riempita, la Hooker provvide a coprirla con uno strato di terra e la vendette al Niagara Falls Board of Education. Negli anni ’50 su questo terreno furono costruitE una scuola e 900 villette mono-famigliari: l’area fu chiamata Love Canal.
Lois Gibbs, pur non avendo alcuna esperienza come attivista e come politica, decise di coinvolgere i suoi vicini e con il loro sostegno si impegnò in una battaglia contro il governo locale, quello statale e quello federale. Molte famiglie lamentavano patologie nei loro bambini, e l’Agenzia per la Protezione Ambientale degli USA fu costretta ad avviare degli esami epidemiologici, dai quali emerse che i residenti avevano una elevata incidenza di danni cromosomici.
Il gruppo di attivisti – la Love Canal Homeowners Association – dopo anni di manifestazioni, proteste, battaglie legali ottenne che 833 famiglie fossero trasferite in aree non inquinate, e che si desse inizio alla bonifica della intera zona.
Neonati e bambini sono I soggetti più a rischio per gli effetti sulla salute dell’esposizione ai veleni chimici.. (Fierce Green Fire) (http://loe.org/shows/segments.html?programID=13-P13-00050&segmentID=7)
Grazie all’impegno di Lois Gibbs e del gruppo di famiglie di Love Canal, che pubblicizzarono la situazione di Love Canal e le responsabilità del governo, il Presidente Carter accettò di destinare un Fondo permanente (il Superfund) per eseguire più efficaci controlli sulle Compagnie e per provvedere alla bonifica di altri siti inquinati, Lois Gibbs ha poi proseguito il suo impegno di attivista ambientale, diventando una figura importante di sostegno in alcune lotte di cittadini contro le attività inquinanti di imprese industriali.
Letture
Barca Stefania. Scienza, genere e storia ambientale. Contemporanea / aXI, n. 2, aprile 2008, pp 333-342. NEWS http://chej.org/
Dalla GIUSTIZIA ambientale alla GIUSTIZIA CLIMATICA
La protesta di Warren County
Settembre 1982 – Warren County, Nord Carolina. Viene aperta una discarica di rifiuti tossici all’interno del quartiere di Alton: preoccupati per i rischi di inquinamento delle riserve di acqua potabile i residenti bloccano i camion diretti al sito, sdraiandosi per terra.
FOTO I manifestanti bloccano il passaggio dei camion carichi di rifiuti tossici destinati alla discarica di Afton, North Carolina, 1982.
Questo evento per la prima volta mise pubblicamente in luce quella che da tempo era una consolidata abitudine alla sopraffazione nei confronti delle comunità più povere ed emarginate degli Stati Uniti, che venivano individuate come le sedi più adatte in cui collocare discariche di materiali tossici. Ma stavolta la popolazione si ribellò, dando luogo a una serie di proteste nonviolente: sdraiandosi sulle strade e bloccando il passaggio dei camion, per sei settimane la comunità afro-americana degli abitanti di Warren County impedì l’esecuzione dei lavori. Più di 500 persone furono arrestate. Questa manifestazione sollecitò l’attenzione del Congresso degli USA, che promosse delle indagini da cui emerse che i tre quarti delle discariche tossiche in otto stati dell’Unione erano situate presso comunità povere di afro-americani. Da qui presero le mosse le successive manifestazioni di protesta e le iniziative di un vasto Movimento per la giustizia ambientale.
La popolazione di Warren County perse la sua battaglia, – ma la sua protesta richiamò l’attenzione dei media a livello nazionale, e diede coraggio a tante altre comunità che in tutto il Paese vivevano situazioni analoghe. Grazie a loro si strutturò un movimento nazionale per la giustizia ambientale, e si avviarono le prime iniziative per approvare tutele legali.